Una storia
«In qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi Paese, di qualsiasi religione ci sono bambini che non possono andare a scuola», afferma la protagonista di fronte ai Grandi della terra. Quanto c’è dell’educazione familiare dietro una così giovane leader? È ancora Malala a raccontarlo mostrando il legame con suo padre Ziauddin Yousafzai, attivista e maestro-docente “sognatore”, che ha trascorso la vita insegnando agli studenti a ribellarsi alla tradizione, alla loro storia e a far sentire la propria voce. La scuola nella Valle dello Swat, a circa 100km dalla capitale Islamabad, era la sua casa e lo era anche per Malala. “Lo studio rende indipendenti e liberi”, è il motivo della sua lotta. A undici anni questo papà incoraggia la figlia a scrivere un blog sotto lo pseudonimo di Gul Makai. È qui che Malala inizia il suo racconto, la vita di una ragazzina in una città tiranneggiata dai Talebani, in cui le scuole sono fatte saltare in aria ed è necessaria una lotta alla sopravvivenza.
Diretto dal regista Davis Guggenheim, il film documentario racconta proprio quello che è sfuggito ai media: Malala non è un fenomeno, un’eccezione, un’eroina unica e solitaria. La sua, prima di tutto, è una storia d’amore: familiare, amicale, sociale. Malala esprime il mondo di coraggio e di ideali, che ha respirato fin da bambina, in casa e tra gli amici. Gli estremisti l’hanno considerata una minaccia e un bersaglio, ma nel potente ritratto del regista vediamo Malala Yousafzai, la teenager Pakistana, la più giovane Premio Nobel per la Pace della storia, una ragazzina, coraggiosa e tenera ad un tempo. In costante pericolo e ugualmente allegra e amante del divertimento, che semplicemente continua a lottare per il diritto universale di vivere e studiare.
Realizzato in 18 mesi molto intensi, che Guggenheim ha trascorso con tutta la famiglia Yousafzai in Inghilterra e sulle strade di Nigeria, Kenya, Abu Dhabi e Giordania, il film è l’occasione di conoscere in modo confidenziale sia Malala che suo padre Ziauddin, sua madre Toor Pekai ed i fratelli Khushal ed Atal. Tutti hanno intensamente contribuito a forgiare la giovane donna che lei sta diventando e fanno del film il racconto della cultura e dell’infanzia incantata di Malala. La storia di una famiglia che ha detto no alla tirannia e le conseguenze di un evento sconvolgente che ha trasformato una scolara coraggiosa in una paladina dell’Istruzione divenuta celebre nel mondo.
“Malala è la straordinaria storia di una ragazza che ha rischiato la propria vita per dire a gran voce cosa è giusto”, dice Guggenheim. Quello che mi ispira è un padre che ha visto in sua figlia una persona in grado di fare qualsiasi cosa e che ha creduto in lei. Una madre che dice: «è importante che nostra figlia vada a scuola». Mi ispira una figlia che vede suo padre dichiarare: «voglio farlo anch’io». La cosa più straordinaria della storia di Malala è la sua famiglia, i suoi rapporti e le scelte che hanno fatto nelle loro vite”.
L’esposizione di Malala l’ha resa vittima di un attentato nell’ottobre del 2012, quando le milizie talebane sono salite sul suo scuolabus e hanno fatto fuoco su di lei e altre sue amiche. Un colpo quasi mortale che la costringe a lunghi mesi di cure e riabilitazione. Malala “aveva commesso” un terribile errore. Urlare in pubblico il suo pensiero: tutti devono potere andare a scuola, anche le donne. Miracolosamente sopravvissuta e con metà del viso danneggiato nelle terminazioni nervose, è ora rifugiata in Inghilterra con la sua famiglia, dove continua a essere portavoce della causa dell’educazione femminile, non solo nel suo Paese, anche negli altri luoghi del mondo dove il problema è più sentito.
PER FAR PENSARE – L’idea del film
“L’istruzione è un diritto fondamentale degli esseri umani”. – Malala
«Tutti noi volevamo far sentire forte la voce delle giovani donne – ha commentato la protagonista –. Il film è diventato una grande opportunità per raccontare la nostra storia ma anche di ricordare a gran voce che l’istruzione è un diritto universale».
L’opera non è l’esaltazione della figura di Malala, il suo monumento, ma l’affresco di una parte di mondo che tendiamo a dimenticare perché la voce di Malala è quella di 66 milioni di bambini nel mondo che non hanno diritto all’istruzione. «La mia campagna è semplice: i bimbi devono andare a scuola. Non voglio che la gente mi sostenga o abbia simpatia per me, ma che sostenga la mia causa e abbia simpatia per i bambini». Adesso con la sua fondazione, il Malala fund, lavora con le ragazze e i bambini rifugiati. «Cerco di dare un aiuto concreto, sul campo. Parlo con molti leader e chiedo loro di investire nella cultura, ma non tutti mi ascoltano. Mi dicono che è difficile costruire scuole. Ho passato il mio 18simo compleanno seduta sul pavimento di una scuola che abbiamo costruito in Libano per le giovani siriane nei campi profughi della Valle della Bekaa per dire ai leader mondiali: dovete concentrarvi su questo. Investire qui, o quella dei giovani siriani sarà una generazione perduta. Ora sono del tutto concentrata sulla nostra fondazione. Sento che è la giusta piattaforma per sostenere le ragazze come me. Io non cerco la celebrità ma voglio essere la loro voce: dire al mondo ‘ascoltate questa ragazza della Siria, del Pakistan, della Nigeria’. Essere cioè la voce di questi bambini e bambine in fuga».
Il sogno del film
«I governi facciano di più. So bene quanto sia difficile partire, migrare».
Quello di Malala Yousafzai è un grido di dolore di fronte alla sofferenza di chi, come lei, è dovuto fuggire dal proprio paese. «Credevano che i proiettili ci avrebbero zittiti. Ma nella mia vita non è cambiato niente a parte questo: la debolezza, la paura e il pessimismo sono morti; sono nati la Forza, la Speranza, il Coraggio». Alle Nazioni Unite prosegue: «Questo è il momento in cui l’Europa deve mostrare al mondo che è pronta a dare sostegno ai rifugiati. Malala è divenuta un simbolo di giustizia e libertà. Il padre Ziauddin Yousafzai decise di chiamarla appunto Malala perché voleva un nome che le avrebbe sempre ricordato il potere che poteva avere come donna. “Quando ero piccola tanti mi dicevano: “Cambiati questo nome, Malala. È brutto, significa triste”. Ma mio padre diceva sempre: «No, ha un altro significato. Significa Coraggio. E voglio che tu ne abbia finché ti lasciano la voce». L’importanza di far sentire la propria voce, costi quel che costi, è centrale nella loro storia affettiva, riassume il regista. Il film vuole dire quanto l’istruzione-educazione di Malala le abbiano dato la forza di provare a cambiare il mondo. È grazie a loro che ha trovato la propria voce e ha poi preso la decisione di usarla per quello in cui crede.
Mariolina Perentaler
m.perentaler@fmaitalia.it