La misericordia è uno dei nomi dell’amore: potremmo dire che è il nome divino dell’amore. Nei discorsi quotidiani, infatti, noi usiamo genericamente il termine ‘amore’ o altri termini come ‘misericordia’, senza fare troppe distinzioni.
La Parola di Dio, invece, è molto più ricca. Esplora risonanze, fa vibrare tutte le corde e le sfumature del cuore umano.
Nell’Antico Testamento c’è un passo che contiene diversi di questi vocaboli e ne costituisce una sintesi: Il Signore passò davanti a lui (Mosè), e gridò: «Il Signore! Il Signore! Il Dio misericordioso (rahum) e pietoso (hannun), lento all’ira, ricco in bontà (hesed) e fedeltà (‘hemet), che conserva la sua bontà (hesed) fino alla millesima generazione, che perdona l’iniquità, la trasgressione e il peccato…» (Es 34, 6-7a).
Questo è il racconto conclusivo dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo, il fulcro della fede di Israele e il culmine del rapporto Dio-uomo. Qui è il Signore stesso che si fa conoscere e si rivela. Siamo di fronte alla rivelazione più completa e più profonda del Dio dell’Antico testamento, rivelazione che è anche una confessione di fede. Mosè ha guidato il popolo ad una grande familiarità con Dio. Mosè parlava con Dio, ma non poteva vederlo. È il simbolo di ogni ricerca spirituale, nella quale il divino rimane sempre nell’oltre e raggiungerlo non è alla portata.
Dio nessuno l’ha mai visto. Si può conoscere di Dio la sua bontà, la sua misericordia verso il peccatore che precede il suo pentimento. Non è uno scambio, Dio non mercifica, non mette in vendita il proprio amore. «Dio è lento all’ira e ricco di misericordia, perché la sua collera dura un istante, mentre la sua bontà dura per sempre» (cfr. Sal 29,6).
Noi parliamo di perdono, ma il verbo ebraico di Esodo 34,7 significa letteralmente ‘portare’, evocando l’immagine di un Dio che ‘porta’ il peso dei nostri peccati.
Come comunità educanti dovremmo fermarci e interrogarci: è questo il volto di Dio in cui crediamo?
È quello che gli altri intuiscono, dopo averci incontrati?
La misericordia, nel Nuovo Testamento, esprime il modo con cui Dio si rivolge all’uomo, lo ama e lo giustifica in Cristo. In esso il corrispondente di rahamin, che indica le viscere materne e più precisamente l’utero (rehem) che si commuove sotto la spinta di un profonda emozione del cuore, è il greco splánchma da cui deriva il verbo splanchnízomai, l’essere preso da viscerale compassione.
Questo verbo è usato solo per Gesù e per Dio di cui Gesù ci parla nella parabola del Padre misericordioso (cfr. Lc 15,20). “Questo tuo fratello era morto…”. Questo sguardo suscita pietà e questa pietà spinge a ridare vita: il padre lo vide… Nell’uomo più miserabile, Dio misericordioso vede la sua eminente dignità di figlio. Giovanni Paolo II sottolinea, nella parabola del figliol prodigo, la potenza della misericordia: «Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria umana e, soprattutto, su ogni miseria morale, sul peccato. Quando ciò avviene, colui che è oggetto della misericordia non si sente umiliato, ma come ritrovato e “rivalutato”. Il padre gli manifesta innanzitutto la gioia che sia stato «ritrovato» e che sia «tornato in vita». Tale gioia indica un bene inviolato: un figlio, anche se prodigo, non cessa di esser figlio reale di suo padre; essa indica, inoltre, un bene ritrovato, che nel caso del figliol prodigo fu il ritorno alla verità su se stesso» (DM 4). La parabola del figliol prodigo dimostra che la relazione di misericordia si fonda sulla comune esperienza di quel bene che è l’uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria. Questa comune esperienza fa sì che il figliol prodigo cominci a vedere se stesso e le sue azioni in tutta verità; e per il padre, proprio per questo motivo, egli diviene un bene particolare: il padre vede, con così limpida chiarezza il bene che si è compiuto, grazie ad una misteriosa irradiazione della verità e dell’amore, che sembra dimenticare tutto il male che il figlio aveva commesso» (DM 4). Gesù con tutta la sua esistenza ci narra le “viscere di misericordia del nostro Dio”.
Gabriella Imperatore, FMA
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