La narrazione suscita automaticamente un collegamento mentale con l’oralità, evoca in noi l’impressione di qualcuno che parla e qualcuno che ascolta, non si pensa, comunemente, ad una narrazione intesa come lettura individuale e silenziosa.
La narrazione si configura, quindi, come un momento di sospensione del reale che delinea i contorni della sospensione del presente per proiettarsi nel passato, mitico o reale, nel futuro o nell’irrealtà. La narrazione è stata lo strumento principe della costruzione e della trasmissione del sapere.
Francois Lyotard, nel libro La condizione postmoderna parla della preminenza del pensiero e della forma narrativa nella costruzione del sapere, nelle civiltà più evolute, rispetto al sapere scientifico, assegnando la funzione di trasmissione e di elaborazione delle conoscenze alla narrazione.
Narrazione e formazione
Se alla funzione formativa si assegna, nella nuova ottica della formazione continua, un valore di empowerment individuale, di implementazione delle capacità di riduzione della complessità o perlomeno di “governo” della complessità stessa, se è vero, come sostiene Daniel Taylor, che ognuno è il prodotto delle storie che ha ascoltato, vissuto e anche di quelle che non ha vissuto, allora risulta inevitabile nei contesti formativi trovare spazio alla narrazione, come oggetto, strumento e soggetto del processo formativo.
Il contributo della pedagogia narrativa è fondamentale. Tuttavia questo non significa semplicemente implementare l’utilizzo della narrazione tramite storie, romanzi, racconti nell’educazione; la narrazione non è oggetto, ma soggetto del percorso educativo ovvero il narrare come forma costitutiva dell’elaborazione pedagogica. Come dire: educare narrando, dare un impianto narrativo al percorso educativo, concepire l’educazione non solo come tempo e luogo delle spiegazioni, della trasmissione del conoscere, ma anche come ascolto reciproco tra soggetti narranti la cui identità è anzitutto un’identità narrativa.
Spazio e tempo per la vita
Oggi si ha “sete” di narrazione perché nella narrazione si ritrova spazio e tempo per la propria vita. La formazione quindi non può rinunciare alla propria dimensione intrinsecamente narrativa, in almeno tre direzioni:
- Una formazione composta essenzialmente di narrazioni, che sappia valorizzare la dimensione narrativa dei “contenuti”: raccontare l’impresa, raccontare la motivazione, raccontare la comunicazione, e persino raccontare l’informatica.
- Una formazione pedagogica, esperta nell’analisi delle narrazioni, preoccupata di tenere deste le capacità narrative della comunità civile, che miri ad insegnare, ad ascoltare narrazioni ed a produrre narrazioni. Ecco l’educazione alla memoria, ad una memoria collettiva socialmente legittimata come chiave di lettura anche di periodi di crisi.
- Una formazione al diario, all’autobiografia che non è solo un modo di raccontarsi, un disvelamento a sfondo narcisistico, o una spiegazione/giustificazione post hoc delle scelte compiute nel corso dell’esistenza. Infatti, scrivere la propria storia è un modo per apprendere qualcosa di sé. Scriverla perché sia letta è un modo per formare altri alla comprensione di sé.
Tre direzioni, che sono anche motivazioni, e possono essere assunte come proprie dalla formazione, perché si comincino a raccontare storie e non si abbia paura, in tanti ambienti di raccontarsi, di raccontare, di fondare anche narrazioni che abbiano la pretesa di non spiegare qualcosa, ma di aggiungere senso.
Memoria pericolosa e storia aperta
Per la fede biblica il racconto delle gesta di redenzione operate dal Signore è “memoria pericolosa”, capace di attualizzare nel presente la salvezza di Dio. Il racconto si rivela particolarmente adatto a prendere sul serio la storia umana e a mediare in maniera significativa per essa la storia salvifica, aprendo futuro e in certo modo tirando nel presente il domani promesso.
Perché sia così, il racconto va vissuto come “storia aperta”, che rimanda a un
prima, fatto di attesa e di speranza, e dischiude a una continuazione nella vita di chi narra e di chi ascolta (cfr. Bruno Forte 2008).
Il riferimento decisivo al racconto, tanto per la comunicazione delle idee quanto per la specifica trasmissione della fede, è inseparabile dalla mediazione interpretativa, che dovrà sempre tener conto di tre elementi: l’estraneità fra il narratore e ciò che è narrato, la corrispondenza fra di essi e la necessaria “fusione d’orizzonti” fra il “narrato” da una parte e il “narrante” e gli interlocutori della narrazione.
Il racconto unisce narratore e interlocutore se muove dal coinvolgimento e dalla trasformazione del cuore. Ciò che è in gioco in un’autentica comunicazione narrativa è insomma la persona in tutta la ricchezza delle sue potenzialità e relazioni, a partire dalla relazione fondamentale che dà vita, l’amore: perciò Sant’Agostino sottolinea come sia la forza preveniente dell’amore a comunicare la gioia e la grazia di cui si fa memoria nel racconto: «Non c’è invito più grande all’amore che prevenire nell’amore» (A. Mura, S. Agostino. De catechizandis rudibus, La Scuola, Brescia 1971).
Guai a perdere, narrando, il senso dell’eccedenza della vita e della storia reale, rispetto a ogni strategia comunicativa: narrare non è dire tutto, ma invitare a un altrove, a un incontro che solo l’esperienza diretta rivela.
Non va mai persa di vista anche la coappartenenza fra il narrato e il narrante, che è fondata sull’unicità della storia cui tutti apparteniamo: come la fede è comunicabile in quanto risponde a una nostalgia di verità presente nel cuore di ogni uomo, così ogni narrare autenticamente comunicativo fa appello all’inquietudine che dispone ogni essere umano alla ricerca e all’incontro con l’altro in ogni tempo e in ogni luogo. Diversi nella ricchezza, gli umani sono solidali e prossimi nella radicale povertà dell’esistere, che è silenzio, domanda, attesa (cfr. Bruno Forte 2008).
Mara Borsi, FMA
mara@fmails.it