Sfogliando le fonti dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice si può scoprire che è proprio la testimonianza di una vita bella, gioiosa e fraterna, il segreto della fecondità vocazionale.
1872. Sono 11 le giovani che fanno la prima professione come FMA e 4 novizie. Alla conclusione della cerimonia della prima professione, Maria Domenica Mazzarello esclama: «Dobbiamo farci gran sante» (Cronistoria I 306). Non era il giubilo di un momento di entusiasmo passeggero, bensì un programma di vita e il segreto che avrebbe attirato tante altre giovani alla scelta vocazionale: la santità semplice e quotidiana, radicata nell’assoluto di Dio.
1874. Don Pestarino, presenta una relazione sulla prima comunità delle FMA all’incontro dei Direttori Salesiani: «Nella casa delle figlie di Maria Ausiliatrice in Mornese vi sono 13 Professe; 8 novizie, 8 Postulanti, 17 educande. In tutte non trovo motivo che di benedire e ringraziare il Signore… Ciò che poi si osserva con soddisfazione è la vera unione di spirito, di carità, armonia piena di santa letizia fra tutte in ricreazione, ove si divertono fraternamente unite, sempre tutte assieme godono di tenersi unite anche in quello…Si conosce in tutte il vero distacco dal mondo, dai parenti e da se stesse per quanto l’umana fragilità comporta. Assidue e direi attente nei loro lavori che mai ho dovuto sentire un piccolo lamento di una che le rincresca, ed anzi prendono parte agli interessi della Casa. Bisogna dire che di gran buon esempio sono pur le maestre benché vi sia una esterna per F.[rancese] e M.[atematica] per allevar quelle per l’esame… Anche [del]le educande non vi è da lamentarsi. Tutte obbedienti e rispettose, ed alcune già si distinguono molto per la pietà e per farsi pure figlie di Maria Ausiliatrice» (Orme di vita, D 34).
Qual è il segreto della fecondità vocazionale di Madre Mazzarello e della prima comunità di Mornese? Dalle testimonianze riportate, si possono ricavare alcuni elementi su cui riflettere: la fraternità calda e gioiosa, la semplicità di vita, la gioia, la centralità di Dio.
La fraternità. Si può leggere il vissuto della prima comunità di Mornese come una esemplificazione eloquente delle parole di Papa Francesco: «Ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una bella avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato […]. C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. Come è importante sognare insieme! […] Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme» (Fratelli tutti, 8).
La comunità diventa, così, il luogo dove si esprime l’eccedenza dell’amore, dove si respira un “surplus di umanità”, una realtà impastata di eternità. «Siamo fatti per l’amore e c’è in ognuno di noi “una specie di legge di ‘estasi’: uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere”» (Fratelli tutti 88). Questo movimento spirituale è il segreto della prima comunità di Mornese: ogni FMA aveva deciso di “uscire da se stessa” per costruire la fraternità nella diversità; si sentiva impegnata in prima persona a vivere la carità “paziente e zelante” e che “tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sopporta e non perde mai la speranza” (Cost. FMA 1982, 7).
La gioia. Riscoprire la bellezza della vita consacrata non è un sentimento estetico né un movimento ingenuo del cuore. Si tratta di una immensa passione per Gesù e, al tempo stesso, di una passione per il suo popolo (cf EG 268). Madre Yvonne Reungoat, Madre generale dell’Istituto delle FMA, ricorda che «le comunità che divengono grembo di nuove vocazioni sono quelle dove Gesù è al centro, dove si respira il Vangelo della carità, dove ci sono sorelle che si vogliono bene, aperte alla speranza e tese a creare comunione, valori questi che danno la giusta dimensione ad eventuali problemi e difficoltà, e dove la gioia profonda non cede il passo alla tristezza» (Circ. 987).
La grande sfida e, nello stesso tempo, la grande opportunità per raggiungere la felicità e la piena realizzazione di sé consiste nella comprensione della vocazione come un dono del Signore, che chiama a stare con lui, non da servi ma da amici, a far festa con Lui, per amare come Lui ha amato e a dare un frutto duraturo che renda suoi discepoli partecipando alla sua stessa gioia e che questa sia perfetta (cf Gv 15).
La missione dell’educatore salesiano, ciascuno secondo la propria vocazione, è testimoniare la bellezza di una vita tutta consegnata al Signore, del fascino di seguire Gesù, di una vita che è gioiosa, perché c’è Lui che la riempie di senso.
La gioia è il primo e più credibile messaggio vocazionale che traspare dalle comunità. Essa ha un forte dinamismo vocazionale e rende le comunità generative di vita. Amedeo Cencini dice che la gioia «è qualcosa di trascendente; provare gioia è di per sé un’operazione mistica. Viene dall’alto, da un motivo che non è solo terreno, ed indica quel che Dio sta facendo nel cuore del credente, la sua azione preveniente e formatrice, e questa è un’operazione mistica» (Cencini Amedeo, La gioia sale della vita cristiana, Milano, San Paolo 2009, 22).
Nel Documento finale del Sinodo dei Vescovi sui giovani si legge: «Tanti giovani sono affascinati dalla figura di Gesù. La sua vita appare loro buona e bella, perché povera e semplice, fatta di amicizie sincere e profonde, spesa per i fratelli con generosità, mai chiusa verso nessuno, ma sempre disponibile al dono. La vita di Gesù rimane anche oggi profondamente attrattiva e ispirante; essa è per tutti i giovani una provocazione che interpella. La Chiesa sa che ciò è dovuto dal fatto che Gesù ha un legame profondo con ogni essere umano perché “Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (n. 81).
Madre Yvonne Reungoat ricorda che, per camminare con i giovani, si richiede un atteggiamento nuovo: «Saper guardare a loro con lo stesso sguardo di don Bosco e di madre Mazzarello. I nostri fondatori hanno scrutato con intuizioni d’amore il cuore dei giovani scoprendo in tutti, anche i più difficili, i ribelli, gli indifferenti, il buono, il bello, le potenzialità nascoste dal punto da trasformare “vite ferite” in persone realizzate, fino ad accompagnarle alla vetta della santità. Dobbiamo credere che questo “miracolo” è possibile anche oggi. Non è utopia, ma ottimismo realista caratteristica irrinunciabile della nostra spiritualità. Non è, forse, un valore che deve essere riconquistato per far brillare maggiormente di gioia e di certezze il nostro agire e ogni nostra scelta per i giovani e con i giovani?» (Circ. 991). A questo riguardo sembra illuminante ciò che scrive Jean Vanier: «Mi è sempre piaciuta quella parola del Re ai servi quando dice loro di andare a cercare i poveri, gli storpi: “invitate alle nozze tutti quelli che troverete” (Mt 22,9). Invitate l’umanità intera alla festa! Non siamo fatti per essere tristi, per lavorare tutto il tempo, per obbedire seriamente alla legge o per lottare. Siamo tutti invitate alle nozze. E le nostre comunità devono essere segno di gioia e di festa. Se lo sono, ci saranno sempre delle persone che vi si impegneranno. Le comunità tristi sono sterili; sono dei mortori. Certo, sulla terra non abbiamo la gioia nella sua pienezza, ma le nostre feste sono piccoli segni della festa eterna, delle nozze alle quali siamo tutti invitati» (Vanier Jean, La comunità luogo della festa e del perdono, Milano, Jaca Book 20188, 367).
Eliane Petri, FMA
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