Come promuovere un’autentica cultura del ‘rispetto’ alle nuove generazioni? Quali le sfide principali pensando ai millennials e ai nativi digitali?
«La complessità dell’educare, amplificata dall’avvento del digitale, ha creato negli adulti un profondo disagio. Si avverte forte l’inadeguatezza del confronto con generazioni che comunicano e vivono le loro relazioni in modo profondamente diverso dal nostro, per cui spesso il mondo virtuale rappresenta un continuum con quello reale. Ciò rischia di porci in atteggiamenti difensivi se non di contrasto educativo. Il pericolo è quello di interrompere la relazione con loro, e pure ogni progetto volto a realizzare una cultura del rispetto. Oggi, come in ogni età che è crocevia culturale, possiamo lasciarci contaminare positivamente dalla differenza che avvertiamo rispetto ai ragazzi e in questa trovare stimoli utili a impostare l’agire educativo.
Abbiamo l’opportunità straordinaria di parlare di rispetto della differenza, vivendo direttamente sulla nostra pelle cosa significhi mettersi in ascolto di chi si mostra diverso da noi. Promuovere una cultura del rispetto, significa, dunque, riconoscere ai giovani la capacità di costruirla, partendo dalle domande di senso profondo che, spesso, mascherano nella comunicazione veloce sui social».
La banalizzazione del corpo e la crescente diffusione della pornografia sono fattori che concorrono ad una distorsione del concetto di rispetto del proprio corpo. Come intervenire?
«La banalizzazione che viene fatta del corpo, dipende molto dalla solitudine nella quale i ragazzi sono lasciati durante l’adolescenza, il tempo della scoperta della sessualità. Dopo decenni di assenza di messa a tema delle questioni educative inerenti alla corporeità, si è passati a una azione di carattere informativo. Non che questa non sia necessaria, ma educare non è solo informare. Un agire pedagogico che rinuncia alla parte formativa, dà ai ragazzi una visione parziale della persona, dove il corpo cambia e agisce completamente sganciato dal resto delle dimensioni affettiva, cognitiva e spirituale. Quasi che ciò che accade alla corporeità non vada a impattare su cosa provo e i pensieri che faccio sulla mia persona. Il lavoro, dunque, che ci attende è oggi quello di mostrare ai ragazzi le potenzialità e le responsabilità relazionali del corpo. Alla luce dell’attuale emergenza sanitaria e del protrarsi del distanziamento sociale, si è creato un ulteriore distacco tra legami affettivi e corporeità. La DAD, l’impossibilità di vedersi e abbracciarsi, la sovraesposizione ai social, ha significativamente rafforzato qualcosa già in atto. L’attuale situazione, d’altra parte, proprio nei limiti posti, offre un’opportunità educativa. Il vissuto odierno aiuta a sottolineare ai ragazzi, nell’evidenza della mancanza, come il corpo comunichi e intrecci relazioni che hanno sede anche nelle altre dimensioni della persona. Quando il corpo manca, manca una parte importante di questa comunicazione, un’assenza che ne fa comprendere anche la responsabilità».
Come aiutare i giovani a costruire una visione integrale della propria persona?
«Gli adolescenti interpretano il mondo attraverso il loro vissuto emotivo. È questo a sollecitarli alla costruzione di immaginari sulla propria identità che soddisfino loro e il gruppo di pari. Per presentare una visione integrale della persona bisognerà perciò partire da dove si trovano, rieducando l’immagine che loro stessi si sono dati. Il confronto aiuta anche la comprensione di come una relazione io-tu dominata dall’emotività, condizioni il giudizio e lo privi di quella prospettiva critica che solo l’agire nell’unitarietà della persona permette».
Barbara Baffetti è Docente del Progetto RispettiAMOci, è socia dell’Associazione Respect per la promozione culturale e la diffusione di una reale cultura del rispetto. Collabora con il Centro familiare Casa della Tenerezza di Perugia (Italia), al servizio e a sostegno della famiglia in ogni suo stato di vita. È esperta di problematiche familiari e autrice di numerose pubblicazioni per l’infanzia. Ama dare espressione alle domande dei bambini, perché ritiene che siano queste a rivelare il senso profondo dell’esistenza e perché ritiene che le parole dei più piccoli siano sempre portatrici di significati carichi di stupore e di speranza.
Lei insiste sulla necessità di dare parole all’affettività. In che senso?
«Gli adolescenti, pur vivendo di emozioni, non ne hanno sempre piena consapevolezza. Si osserva, infatti, un certo analfabetismo, per cui non sempre riescono a dare un nome ai vissuti, soprattutto quando sono negativi. La conseguenza è un agire istintuale. L’azione educativa deve poter fornire loro una cornice, uno spazio in cui possano dare un nome e reperire strumenti per interpretare il vissuto, contenerlo e al tempo stesso farne un’analisi consapevole.
Penso a un contenitore in cui il mondo degli adulti fornisca ai ragazzi argini critici perché non siano sopraffatti da ciò che provano. In assenza di questo, è molto probabile che la loro comunicazione emotiva avvenga negli spazi virtuali che sono di fatto una “non-cornice”. In essi la dimensione affettiva de-spazializzata e de-temporalizzata, scivola spesso in un emozionalismo velocemente consumato e amplificato dai riflettori, a volte deformanti, dei social.
Non dobbiamo stigmatizzare i nuovi stili di comunicazione, quanto piuttosto ritrovare come adulti una presenza significativa nelle vite dei ragazzi. È questo lo spazio educativo della famiglia che tuttavia non può essere lasciata sola nella sfida. È urgente creare, dunque, alleanze tra genitori, scuola e altre agenzie pedagogiche».
La corporeità in fase adolescenziale può costituire un limite all’accettazione di sé. “Non mi riconosco nel mio corpo sessuato”, “Non mi piaccio”. Come intervenire?
«Non è inusuale che i ragazzi sperimentino la corporeità come limite. Il proprio corpo è da nascondere se non adeguato alle richieste che vengono dall’ambiente. Il corpo dell’altro è limite, quando ostacola i miei desideri o mi spaventa per le domande che porta con sé.
In entrambi i casi, la corporeità resta inascoltata, non rispettata. Si assiste a una rinuncia a scoprire la complessità della propria identità di uomo e donna, che conduce anche alla rinuncia ad accogliere l’alterità. Paura e diffidenza mettono radice nel cuore dei ragazzi, inficiando lo sguardo su se stessi e su chi è avvertito come diverso. Ho visto tanti ragazzi vivere la scuola, lo sport e persino il tempo libero per dimostrare di essere all’altezza delle attese di qualcuno. Ne ho visti invece troppo pochi accompagnati a comprendere come alcune paure rispetto al proprio corpo facciano parte del delicato passaggio dell’adolescenza. Bisogna sostenerli nel percorso che li vede fare i conti con i naturali e fisiologici sconvolgimenti della loro età evitando di banalizzarli o patologizzarli. Piuttosto è necessario restituire naturalezza alla fatica dell’adolescenza. Per questo come educatori credo si debbano evitare interpretazioni emotive del sentito dei ragazzi, restando in ascolto e alleggerendo i vissuti per riconsegnare loro anche la bellezza delle conquiste del tempo che stanno vivendo».
Coniugare affettività e sessualità è una sfida ancora possibile?
«Non solo è possibile raccogliere questa sfida, ma direi anche necessario e urgente. Educare all’affettività non può prescindere dal prendere in considerazione con essa la sfera della sessualità se si vuole ancora una volta prevenire ogni forma di scollamento della persona. È alto il rischio che la sessualità venga vissuta come un’appendice della vita, banalizzata o al contrario temuta.
La reale sfida educativa è, dunque, quella di accompagnarli a riscoprirne la preziosità, tra libertà e responsabilità, nell’orizzonte che anche Papa Francesco ha consegnato loro, definendola un meraviglioso regalo di Dio. “La sessualità, il sesso – ha detto – è un dono di Dio. Ha due scopi: amarsi e generare vita. È una passione, è l’amore appassionato. Il vero amore è appassionato. L’amore fra un uomo e una donna, quando è appassionato, ti porta a dare la vita per sempre. Sempre”».
Paolo Ondarza
paolo.ondarza@gmail.com