Il film racconta il sogno americano, l’incontro non sempre facile di due mondi, quello americano e quello del paese di origine, ma anche di tre generazioni differenti, all’interno di una famiglia in cui il “capofamiglia” Jacob fa di tutto per regalare un futuro migliore ai figli, senza perdere l’amore della moglie Monica.
Provenienti dalla California, si trasferiscono in Arkansas, nel pieno sud contadino. Li attende una casa con le ruote, nella loro ricerca di un nuovo inizio, che reprime non poco Monica, ma stimola Jacob a crearsi un giro d’affari in proprio, smettendola con un lavoro estenuante e ripetitivo con cui riuscivano appena a sopravvivere. Vuole creare dal nulla una propria fattoria, per coltivare ettari di verdure coreane che tanto mancano ai 30 mila immigrati che lasciavano ogni anno quel paese per inseguire un futuro diverso in America. Siamo negli anni ’80, e la Corea non era ancora quella realtà economica che conosciamo oggi.
Piccole e grandi operazioni di adeguamento culturale, di tradizioni a confronto per gli adulti, ben più naturali per i figli, la cui quotidianità è messa in discussione dall’arrivo dell’eccentrica e insolita nonna Soonja; i più piccoli sono ormai assimilati culturalmente, mentre lei “odora di Corea”, oltretutto dimostrandosi presto “non una vera nonna“, visto che “non sa cucinare, né fare i biscotti e dice le parolacce”, ma li coinvolge subito in accanite partite a carte decisamente poco educative. Momenti divertenti, mentre intorno a loro il rapporto fra i due genitori si sfalda, messo a dura prova dalla prudenza di lei e dall’azzardato tentativo di lui, che mette a rischio la loro già precaria situazione finanziaria.
Il desiderio dei due personaggi è quello di potersi integrare in un paese che non è il loro, ma allo stesso tempo trovare la maniera di mantenere solidi i propri principi, le tradizioni che li hanno cresciuti, che apparterranno loro anche se sono ormai lontani da casa. È per questo che Jacob decide di coltivare prodotti tipici della cucina coreana. Perché sa che tantissimi immigrati, anche se ora cittadini americani, spesso sentono il bisogno di un cibo familiare, che ricordi il posto in cui sono nati, quello che hanno dovuto lasciare.
Nel dover subire il male più grande (l’ictus) e dopo aver causato quella che potrebbe essere la definitiva sconfitta della famiglia Yi (l’incendio del fienile), la nonna Soonja va concentrando in sé tanto il passato che deve essere superato, quanto l’essere, a proprio modo, portatrice di una nuova pace. Quella che la famiglia ritroverà proprio dopo le fiamme attorno e dentro il capannone agricolo.
Sono proprio il più giovane e la più anziana a piantare i semi per un futuro diverso della famiglia, quelli dei minari, una sorta di versione piccante e coreana del prezzemolo, un ingrediente chiave del kimchi, il piatto nazionale coreano, che rappresenterà il frutto comune, il lascito finale del percorso di crescita – anche emotiva – del rapporto fra nonna e nipote.
Minari diventa così l’incontro tra due culture, due società differenti, due modi di vedere il mondo. Uno esterno e uno interno. Quello esterno riguarda l’abisso che divide l’Occidente dall’Asia, l’America dalla Corea del Sud. Cercando di integrarsi in un sistema comunque difficile, seppur più promettente rispetto a quello che sarebbe stato riservato loro in patria, i personaggi di Jacob e Monica decidono comunque di partire. Di agire, di trasferirsi, anche se mettere radici in una terra all’apparenza accogliente, ma allo stesso tempo meschina, comporta ostacoli che sembrano non poter trovare mai una fine.
La pellicola, poetica, dolce e commovente, candidata a sei premi Oscar, ha ottenuto il Premio come Miglior attrice non protagonista a Yuh Jung Youn e un Golden Globe come Miglior film Straniero.
È un film di rinascita in cui tutto il racconto si concentra sulla coltivazione dei campi, la puericultura e la cultura quale vettore di integrazione sociale senza svilire l’identità personale. Il minari, piantato in prossimità di una pozza d’acqua, diventa premessa e promessa di felicità che non si può programmare, ma espropriare dal caso questo sì. Minari è un film di fede, di ricerca – origine (Corea e Usa), anagrafe (nonna, nipote), relazione (marito, moglie) – che individua un punto nel terreno dove piantare i semi di minari.
La possibilità dell’acqua, non fine a se stessa, ma ipoteca di vita: acqua lustrale, acqua che battezza il futuro, che irriga la speranza. Una missione che Lee Isaac Chung affida al formato famiglia: il loro stare insieme alimenta il racconto, perfeziona fatti e battiti, suspense e pathos, con inquadrature oblique, incursioni sonore e fuoricampo sempre attivo.
Ma forse, in fondo, anzi, nel profondo a farci innamorare di Minari è che dietro le sue buone maniere, dietro la scelta di aguzzare lo sguardo anziché alzare la voce è un film, e un’idea di mondo e di arte, che non abdica al conflitto, dell’Uomo con la Natura (e lo Stato), dell’Uomo con la Donna, dei Vecchi con il Futuro, e dei Giovani con il Passato. E che prima di trovare un’acqua salvifica – sa preferire il conforto al contrasto, la ripartenza alla terra bruciata – è sintesi senza antitesi.
Minari è un film piccolo, ma dalla potenza significativa fortissima. Riesce a fare il cuore in mille pezzi, coinvolge lo spettatore in un turbinio di emozioni contrastanti, rapide e intense, per poi rimettere insieme i pezzi. È un vero trattato sull’immigrazione, ieri come oggi, è un gioiello prodotto da Sandra Oh che conquista direttamente i cuori. È il racconto di un sogno, quello di una famiglia simbolo della grande comunità di migranti che fa rotta verso Paesi dalle economie floride, attratta da promesse di futuro. Minari è una suggestione poetica sul bisogno di accoglienza, di integrazione, ma anche di custodia delle proprie radici identitarie: Jakob e i suoi cari vogliono essere americani, senza però rinnegare se stessi e il proprio passato.
Oltre ad essere una nuova opera cinematografica che va raccontando l’immigrazione tramite l’intimità e un occhio sempre universale, è un’opera destinata ad arricchire il mondo e le sue continue, infinite contaminazioni. Minari è una meravigliosa metafora sociale per il nostro tempo, un film che predispone all’ascolto e all’incontro.
Andrea Petralia
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