Mitezza, sobrietà, profezia

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Guerra, violenza, aggressività incontrollata. Ogni giorno un vortice di notizie tenebrose ci raggiunge da tutte le parti del mondo inchiodandoci a delle domande ineludibili: la beatitudine dei miti e il valore della sobrietà hanno ancora senso in questo tempo? È possibile oggi essere profeti di mitezza, testimoni di una parola sobria, autentica, autorevole? Noi che riconosciamo nel nostro Signore e Maestro la forza della mitezza, la bellezza di uno stile di vita sobrio e fecondo, siamo convinti che a vincere non saranno la prepotenza, l’odio, la prevaricazione, la sete di dominio, di successo, di potere, di denaro? O forse anche dentro i nostri polmoni l’ossigeno del Vangelo sembra arrancare, tanto è pervasiva l’aria dell’indifferenza fratricida, il vento dell’egoismo globale?

Credo che prima di ogni parola offerta agli altri, prima di ogni analisi della situazione e di ogni giudizio costruttivo donato alla comunità, ognuno di noi debba porsi queste domande, anzitutto chiedendosi se ciò che imperversa tra le strade del mondo non cammini anche in minima parte tra i viottoli stretti e nascosti del proprio cuore. Le parole di Gesù ci offrono un criterio chiaro di verifica: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro (…) Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7, 14-15; 21).

Ogni volta che mi confronto con quest’ammonimento del Maestro mi vengono in mente i titoli dei giornali e quelli delle trasmissioni televisive: in fondo queste parole sono un indice chiaro e dettagliato delle tante notizie che ogni giorno danzano ad un ritmo folle sui nostri schermi, notizie che hanno il sapore di una lotta continua, di un agonismo insano, di una gara senza regole in cui sistematicamente si escludono dall’orizzonte etico e relazionale coloro che vengono considerati impedimenti o ostacoli al potere e al successo. Da qui nasce il vortice globale di un individualismo che si fa indifferenza e da cui con costanza e da diversi anni ci mette in guardia Papa Francesco: “Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete” (EG 54).

L’indifferenza però non è mai neutra e spesso ha il sapore della prevaricazione e il retrogusto della violenza, fisica o relazionale che sia, perché permette o addirittura incentiva dinamiche che vanno nella direzione opposta a quella percorsa dal Maestro di Nazareth il quale ci ha invitato ad una conversione diversa da un semplice cambio di casacca, insegnandoci a lavorare nel profondo del cuore piuttosto che accontentarci di una facile ristrutturazione di facciata. Si, Gesù invita a un lavoro autentico e certosino da compiersi nell’anima, chiedendo un tuffo di fiducia nel mare del Vangelo, nell’oceano di quella buona notizia che fa dell’amore incondizionato il criterio di ogni scelta, del servizio disinteressato il metro di ogni impegno, della misericordia, della riconciliazione, della pace e della giustizia i valori su cui costruire ogni relazione personale, ogni rete sociale, ogni statuto comunitario. Il suo messaggio non è roba del passato, non proviene da tempi antichi e inattuali e non è la consegna testamentaria di un assente ma è impegno per il presente, bussola per mete future, suggerimento vivo e sempre attuale dello Spirito. Cosa ci suggerisce quindi il Risorto dinanzi all’imperversare della violenza, dinanzi all’impero del mercato e dell’esclusione, dinanzi alla rassegnazione che tante volte rischia di anestetizzare il cuore?

Ci indica tre vie evangeliche, tre strade di pace, tre sentieri di giustizia:

La mitezza per vincere la violenza nei cuori e nelle relazioni

La mitezza non è cosa da poco! Secondo le beatitudini di Matteo (5,5) i miti erediteranno la terra. L’evangelista aveva ben presente le vicissitudini del popolo di Israele appena entrato nella terra di Canaan, quando questa fu divisa secondo le tribù e ogni tribù la divise secondo i clan e i clan la divisero secondo le famiglie. Nella mentalità degli autori biblici del Primo Testamento la terra è infatti qualcosa di importantissimo, è vita, è dignità, è sostentamento. Entrati in Canaan, i più astuti, disonesti e prevaricatori si impossessarono nel giro di qualche generazione di quella terra e ai più umili e retti restò poco, o nulla. Sembra proprio la descrizione del nostro mondo, della nostra società dove chi prevarica, urla, grida, agisce in modo violento sembra avere la meglio su tutti. E questo non avviene solo a livelli alti ma anche nei microcosmi in cui ci muoviamo ogni giorno, come quelli ad esempio della nostra città, del nostro quartiere, perfino della nostra comunità religiosa. La tentazione di credere che i metodi violenti, che le parole urlate, che i gesti di dominio siano gli unici in grado di garantire la nostra sopravvivenza e il nostro futuro diventa quasi irresistibile. Per questo dinanzi a questo scenario Gesù, il Mite, ci ricorda una verità che ai nostri occhi appare incredibile, paradossale, quasi assurda. Si, la terra, la vita, il futuro non apparitene a chi alza la voce, a chi ha uno sguardo agguerrito, a chi mostra i pugni e indurisce il cuore. No, il futuro è di chi si fida del Vangelo, di chi disarma il cuore, di chi trasforma i pugni in mani tese, le parole rancorose in soffi di pace. La beatitudine della mitezza è infatti un invito e un incoraggiamento: siate miti, non scoraggiatevi, ma camminate, proseguite il cammino, andate avanti, tenete fisso lo sguardo alla meta, lasciatevi attirare da ciò che vi sta davanti e non fatevi frenare dall’imperversare di una violenza sottile, camminate invece dando fiducia all’eredità che Gesù ha promesso e che spalanca un orizzonte di vita in cui il dominio e la violenza apparteranno a un passato lontano. Il cammino della mitezza è così un cammino di felicità, un cammino verso l’essenziale, verso la semplicità. È mettere avanti un futuro, è offrire le condizioni ora per ciò che potrà essere vero domani. Ma attenzione, lungi da noi il credere che questo domani ci arriverà unicamente come dono dall’alto. No, il domani di cui parla Gesù, l’eredita dei miti, il regno che viene se da un lato è dono del cielo dall’altro lato è anche frutto dell’impegno nella terra, di quella terra da arare, irrigare, coltivare con i semi della pace, con l’acqua della giustizia, con il concime della mitezza.

La sobrietà per vincere la prevaricazione di un’economia senza volto

Da poco ci siamo messi alle spalle la pandemia, abbattutasi sul mondo come un castigo inflitto agli uomini dagli uomini stessi, dalla loro incapacità di cura della casa comune, attenzione vicendevole. Le economie mondiali hanno tutte mostrato la propria fragilità e la globalizzazione, che tutte le orienta, ha così palesato i suoi piedi d’argilla, rivelando quanto fossero inutili le scarpe eleganti e costose di cui erano rivestiti. Tutti i governi sono corsi ai ripari inventando provvedimenti urgenti che potessero arrestare il corso sempre più drammatico dei problemi non solo sanitari ma economici, problemi che hanno messo ancor di più al margine gli ultimi, i poveri, i piccoli rendendo ancora più chiara e urgente la necessità di un mondo fondato sulla vera eguaglianza, sulla donazione di ciascuno verso l’altro e sullo slancio di tutti verso la comunità umana. Che è una e indivisibile. E che proprio per questo necessita di equità. Equità nella distribuzione dei beni, equità nelle possibilità di vita, equità fatta di scelte realmente solidali, scelte che hanno un costo concreto e il sapore della rinuncia. Si, rinuncia. Una parola difficile da digerire. Ma se immaginiamo il mondo come una torta messa su un tavolo di dieci commensali in cui due o tre si accaparrano otto fette, lasciandone solo un paio ai restanti, quale altra via è possibile a questi due o tre per essere equi e giusti se non quella di rinunciare o almeno condividere ciò che si erano accaparrati? Non ce n’è un’altra. La via è questa: rinunciare al tanto, al troppo, al tutto e vivere con soddisfazione la bellezza del giusto, il sapore dell’equo, l’incomparabile meraviglia di una comunità solidale. E questa è la via della sobrietà. Vivere in maniera sobria significa ritornare ai sapori essenziali, veri, autentici che rendono l’umanità gustosa e la vita piena. Si, perché a volte siamo pieni di tutto ma non di vita. Rischiamo di assaporare tutto senza assimilare nulla, andando in deficit di bellezza, di significato, di senso. Un profeta a cui devo tanto – don Tonino Bello1 – scriveva che “di fronte alle ingiustizie del mondo alla iniqua distribuzione delle ricchezze, alla diabolica intronizzazione del profitto sul gradino più alto della scala dei valori, il cristiano non può tacere. Come non può tacere dinanzi ai moduli dello spreco, del consumismo, dell’accaparramento ingordo, della dilapidazione delle risorse ambientali. Come non può tacere di fronte a certe egemonie economiche che schiavizzano i popoli, che riducono al lastrico intere nazioni, che provocano la morte per fame di cinquanta milioni di persone all’anno, mentre per la corsa alle armi, con incredibile oscenità, si impiegano capitali da capogiro”.2 E continuava indicando nella scelta di uno stile di vita sobrio, fatto di condivisione e solidarietà, l’unica via possibile per cambiare rotta e per denunciare il sistema ingordo di iniquità che governa il mondo. Ecco il valore della sobrietà, unico vaccino possibile al virus che ha infettato non solo l’economia, ormai senza volto e senza cuore, ma anche i nostri stili di vita, le nostre scelte quotidiane, fatte di azioni apparentemente insignificanti ma che in realtà contribuiscono a mantenere in piedi il gigante dai piedi d’argilla che è il mercato. Essere sobri significa godere del presente, gustare, gioire per ciò che si ha e si è, smettendo una volta per tutte di dar credito a bisogni indotti, a modelli tanto attraenti quanto finti e disumani. Significa assaporare ogni cosa fino in fondo, senza sentire la necessità di andare subito oltre. Significa imparare a sostare, a sentire, a gioire della vita. E non è un fatto astratto e solamente poetico ma è impegno quotidiano. Un impegno che inizia al supermercato attraverso acquisti necessari ed eticamente consapevoli, che passa per una mentalità nuova capace di rinunciare all’edonico usa e getta, che arriva a compiere scelte sagge e concrete di solidarietà fattiva, visibile, addirittura direi rischiosa. E questo non vale solo per il mondo “di fuori” ma anche per la nostra Chiesa, per le nostre diocesi, congregazioni, ordini, comunità, strutture. Siamo chiamati ad esercitare il magistero della sobrietà non attraverso prediche e documenti ma con scelte concrete e visibili. Solo così potremmo rendere credibili le nostre parole e indicare alternative valide a quelle proposte dai signori del mondo. In fondo si tratta della più valida delle alternative: quella del Vangelo, quella del Signore della storia.

  La profezia per vincere l’immobilismo e l’assuefazione

Mitezza e sobrietà. Parole che sembrano di altri tempi. Qualcuno pensa vengano dal passato. Io, invece, credo che riguardino il futuro. Ma non quello che inizia domani: quello che comincia ora, oggi, da me, da te, da noi. Quel futuro che comincia quando impariamo a fidarci del Maestro, a credere sul serio e non solo a parole nel suo Vangelo. Superando la più terribile delle tentazioni. Quella di credere che tutto questo vada bene dirlo tra le mura del tempio ma non tra quelle della casa, da un ambone ma non nel capitolo o in un consiglio per gli affari economici, su un giornale ma non in una riunione aziendale o politica. Ecco, si tratta di uscire dalla logica dell’immobilismo e dell’assuefazione: immobili perché legati più alle strutture che alla Parola di cui sono al servizio, assuefatti perché così abituati a sentir parlare di Vangelo da dimenticarci che più che un messaggio da ascoltare è una pratica di vita, una strada da seguire. Dire nelle celebrazioni che il Dio di Gesù Cristo è il Dio degli uomini, dei deboli, dei poveri, esige il coraggio della coerenza. Chiede la forza di ripetere le stesse cose fuori dal tempio, testimoni oculari del grande messaggio che lo Spirito ci dona e ci consegna: è il messaggio che ci invita ad uscire allo scoperto, ad uscire fuori dalle nostre prudenze e comode certezze. Il rinnovamento non solo sociale ma anche ecclesiale passa attraverso un’immersione nel mondo, un contatto diretto con le ingiustizie, le discriminazioni, le violenze che schiacciano la vita di milioni di persone. E si concretizza, allora, nell’essere Chiesa che intercetta, che va incontro alle fragilità e alle singole storie. Una Chiesa mite e sobria. E per questo libera, povera, una Chiesa che non ha paura di percorrere le strade difficili e strette, una Chiesa che sa gioire e condividere, una Chiesa che sa commuoversi e meravigliarsi davanti alle opere di Dio che si realizzano nel nostro quotidiano. Una Chiesa in uscita, samaritana. Una Chiesa discepola della fragilità. Una Chiesa che non ha nulla a che fare con coloro che caricano di pesi insopportabili i piccoli, i poveri e gli oppressi, Chiesa che ne rivendica anzi la dignità, perché ogni essere vivente porta in sé l’immagine di Dio. Chiesa che conosce l’arte di rallentare il passo perché porta nel suo cuore la fatica dell’ultima pecora, quella gravida e quella ferita. Chiesa in ascolto dei piccoli, degli ultimi. Una Chiesa che evangelizza perché evangelizzata dai poveri. Una Chiesa che invita il mondo alla mitezza perché capace in tutti i suoi processi, in tutte le sue innervazioni, di essere realmente mite, non violenta, umile. Una Chiesa maestra di sobrietà perché sobria davvero, controcorrente rispetto all’ingordigia dei mercati. Una Chiesa capace di custodire il sogno di Dio e consegnarlo ogni giorno al mondo attraverso scelte nuove, coraggiose, rischiose. Scelte che sanno di profezia.

Beati: provocazione all’impegno 

Che cosa significhi il termine “beati” è difficile spiegarlo.

C’è chi ha voluto specularci sopra, capovolgendo addirittura il senso delle parole del Signore per utilizzarle a scopi di imbonimento sociale. Quasi Gesù avesse inteso dire: state buoni, poveri, perché la misura della vostra felicità futura sarà inversamente proporzionale alla misura della vostra felicità presente. Anzi, quante più sofferenze potete collezionare in questa vita, tanto più vi garantite il successo nell’altra.

È questo un modo blasfemo di leggere le beatitudini, perché spinge i poveri all’inerzia, narcotizza i diseredati della terra con le lusinghe dei beni del cielo, contribuisce a mantenere in vigore un ordine sociale ingiusto e, in un certo senso, legittima la violenza di chi provoca il pianto degli oppressi dal momento che a costoro, proprio per mezzo delle lacrime, viene offerto il prezzo per potersi pagare, in contanti, il regno di Dio. C’è invece, chi ha visto nella formulazione delle beatitudini un incoraggiamento rivolto ai poveri, agli afflitti, agli umili, ai piangenti, ai perseguitati… per sostenerli con la speranza dei beni del cielo. Quasi Gesù avesse inteso dire: se a un certo punto vi sentite sfiniti per le ingiustizie che patite, tirate avanti lo stesso e consolatevi con le promesse della felicità futura. Guardate a quel che vi toccherà un giorno, e questo miraggio di beatitudine vi spronerà a camminare, così come il desiderio del riposo accelera e sostiene i passi di chi, stanchissimo, sta tornando verso casa.

Anche questo è un modo stravolto di leggere le beatitudini. Meno delittuoso del primo, ma pur sempre alienante e banale. Perché punta sull’idea della compensazione. Perché con la lusinga della meta, non spinge la gente a mutare le condizioni della strada. Perché se non proprio a rassegnarsi, induce a relativizzare la lotta, ad arrendersi senza troppa resistenza, a vedere i segni della ineluttabilità perfino dove sono evidenti le prove della cattiveria umana e a leggere i soprusi dell’uomo come causa di forza maggiore.

E c’è finalmente, il modo legittimo di leggere le beatitudini. Che consiste, essenzialmente, nel felicitarsi con i senzatetto e i senza pane, come per dire: complimenti, c’è una buona notizia! Se tutti si son dimenticati di voi, Dio ha scritto il vostro nome sulla palma della sua mano, tant’è che i primi assegnatari delle case del regno siete voi che dormite sui marciapiedi, e i primi a cui verrà distribuito il pane caldo di forno siete voi che ora avete fame.

Felicitazioni a voi che, a causa della vostra mitezza, vi vedete sistematicamente scavalcati dai più forti o dai più furbi: il Signore non solo non vi scavalca nelle sue graduatorie ma vi assicura i primi posti nella classifica generale dei meriti.

Auguri a tutti voi che state sperimentando l’amarezza del pianto e la solitudine dei giorni neri: c’è qualcuno che non rimane insensibile al gemito nascosto degli afflitti, prende le vostre difese, parteggia decisamente per voi, e addirittura si costituisce parte lesa ogni volta che siete perseguitati a causa della giustizia.

Rallegratevi voi che, in un mondo sporco di doppi sensi e sovraccarico di ambiguità camminate con cuore incontaminato, seguendo una logica che appare spesso in ribasso nella borsa valori della vita terrena ma che sarà un giorno la logica vincente.

Su con la vita voi che, sfidando le logiche della prudenza carnale, vi battete con vigore per dare alla pace un domicilio stabile anche sulla terra: non lasciatevi scoraggiare dal sorriso dei benpensanti, perché Dio stesso avalla la vostra testardaggine.

Gioia a voi che prendete batoste da tutte le parti a causa della giustizia: le vostre cicatrici splenderanno un giorno come le stimmate del Risorto!

Tonino Bello, Alle porte del Regno

  1. Antonio Bello, vescovo italiano meglio conosciuto come Don Tonino [Alessano (LE), 18 marzo 1935 – Molfetta (BA), 20 aprile 1993], è stato un vescovo italiano, dichiarato venerabile il 25 novembre 2021 da Papa Francesco. ↩︎
  2. Don Tonino Bello, Vegliare nella notte. Riflessioni sull’impegno cristiano nel servizio sociale e nella politica, San Paolo Edizioni, 2007. ↩︎

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