È sempre la stessa storia: l’uomo che distrugge quello che un Altro ha creato. È come se l’essere umano abbia perso il suo “io” più profondo, quel ponte che lo lega spiritualmente all’Invisibile e, visto che non sa dargli un nome, lo annienta. Di quest’uomo Tahamil ha paura, non comprende le dinamiche e i motivi di tanta violenza. Questi sentimenti li ho vissuti anche io attraverso i suoi racconti. I racconti di chi subisce le scelte di altri, siano essi uomini e donne della politica, Stati, multinazionali e non sa darsi particolari motivazioni del “perché tutto questo male?”.
Non sempre ci sono risposte ai nostri interrogativi, ma la questione climatica, la nostra incapacità di prenderci cura del Creato e di quello che abbiamo ricevuto in eredità è il segno più brutto e vile che riusciremo a consegnare alle nuove generazioni e a quelle future.
Tahamil mi ha confidato che spesso riflette su questo tema – mediaticamente molto dibattuto – delle “future generazioni”. È molto scettica sulle possibilità che questa condizione climatica lascerà alle generazioni di bambine e bambini vietnamiti, e non solo. Il suo pensiero va inevitabilmente ai più piccoli che, a causa delle piogge torrenziali, inondazioni e siccità vivono per mesi condizioni di vita durissime. Per settimane il cibo non basta, il grano e i prodotti della terra scarseggiano, il bestiame muore di fame a causa della carestia.
Ho avuto l’impressione che a forza di pensare al futuro, rischiamo di perderci il presente. E questa è una sensazione comune a tanti giovani: è come se non credessimo più all’idea di “futura generazione”, visto che oggi, alle “generazioni di adesso”, non ci pensa veramente nessuno. Tutti troppo presi dalle proprie ambizioni, ci stiamo dimenticando della bellezza del Mondo, i suoi colori, la sua biodiversità, la differenza tra le culture e le popolazioni che lo abitano e purtroppo, come un’assuefazione, ci stiamo abituando alla mediocrità, all’ingiustizia, alla bruttezza che prende il posto del “bello”. Questo concetto, mi ha fatto pensare molto a quanto la nostra generazione (e quelle future) debbano lottare – metaforicamente parlando – affinché non si dimentichi quanto detto, nei tempi addietro, dal filosofo Hans-George Gadamer: “L’arte non offre la conoscenza di un illusorio, il fatto artistico non è «bella apparenza» riservata a pochi privilegiati, ma è l’esperienza dell’«apparenza del bello», cioè del suo evidenziarsi; il bello è in funzione della verità”.
Ecco dovremmo recuperare questo desiderio di elevazione profonda, verso l’Arte, verso qualcosa che è Altro e dice bellezza, senza sminuirla solo da un punto di vista puramente estetico, verso qualcuno che racchiude tutto ciò che dice “Verità”.
Tahamil vorrebbe tornare nel suo paese, parlare la propria lingua e fare visita agli anziani della famiglia per continuare a farsi raccontare vicende incredibili dei suoi antenati, donne e uomini coraggiosi, pieni di forza e di speranza. Pezzi importanti di storia che sanno di futuro.
Come tanti di noi, vorrebbe trovare una base, una propria stabilità, un luogo da poter chiamare “casa”. Invece, è più facile continuare a girare il mondo, conoscere e confrontarsi con persone nuove fino al prossimo aereo che la porterà in Paesi lontani, per fare nuove amicizie e raccontare un’altra versione della sua storia. Una storia sempre nuova, come uno strumento di autodifesa che permette di mettere da parte i desideri sfumati, i progetti falliti e la paura di non riuscire ad arrivare a coronare i propri sogni. A pensarci bene, chi di noi, almeno una volta, non l’ha fatto? Chi di noi, in cuor suo, sa di non essere mai fuggito da una situazione scomoda, di averci quantomeno pensato a scappare piuttosto che prendere decisioni che ci spaventavano. Per avere un po’ di coraggio, bisogna avere molta paura.
Ho chiesto spesso a Tahamil qual è la sua ambizione più grande e, alla domanda, ha accennato un timido sorriso e mi ha guardato con lo sguardo di chi non è abituato a condividere con gli altri le proprie impressioni sul mondo. Ci ha pensato un po’ e poi mi ha confidato: “Il mio desiderio più grande è quello di lasciare il segno, anche piccolo, ma lasciare un segno del mio passaggio sulla Terra”. Questa risposta mi ha commossa e al tempo stesso mi ha colpito profondamente. Mentre parlavo con Tahamil, pensavo a quante volte il Santo Padre ci ha stimolati con le sue parole sul tema del “prendersi cura”, sul desiderio di attenzione a ciò che è più fragile, sensibile e delicato. Lo leghiamo quasi solamente all’idea di “ecologia ambientale” ma forse “ecologia integrale” ha un’accezione molto più complessa ed ampia. Per me significa guardare negli occhi l’altro, chi soffre, chi è in difficoltà. Per usare le parole di papa Francesco, non cedere alla “cultura dello scarto”, che appiattisce le identità e ci omologa, riducendoci a merce standardizzata.
Non conosco dove porterà questo itinerario di storie, ma è era la sintesi perfetta di un lunghissimo viaggio, quei viaggi che ti scavano dentro, non lasciano spazio a interpretazioni. È il viaggio nelle emozioni più intime, quelle che tieni solo per te perché sono troppo preziose per lasciare alle parole il compito di sintetizzarle. Hai paura che, condividendole con qualcuno, si perdano nell’aria e volino via lontano, come se a un tratto ti strappassero la parte più importante di te e perdessi la proprietà di così tanta bellezza. Una bellezza che hai custodito gelosamente e che ora passi, come un testimone, al tuo interlocutore o, come in questo caso, al mio lettore.