Cosa ti ha lasciato il Sinodo dello scorso ottobre?
“Questo incontro, durato quattro settimane, lo definirei una vera e propria “finestra sul mondo e la Chiesa”, un evento ecclesiale coraggioso che nasce nel periodo post-pandemia come l’esigenza di prendere una posizione chiara su alcuni temi importanti: le povertà, le guerre e le ingiustizie, ma anche il tema degli abusi e la solitudine nell’epoca dell’iper-connettività”.
Tutto racchiuso nelle circa quaranta pagine del documento frutto del lavoro dell’assemblea che si è svolta mentre nel mondo infuriano vecchie e nuove guerre, con il dramma assurdo di innumerevoli vittime. Il grido dei poveri, di chi è costretto a migrare, di chi subisce violenza o soffre le devastanti conseguenze dei cambiamenti climatici è risuonata tra noi, non solo attraverso i mezzi di comunicazione, ma anche dalla voce di molti, personalmente coinvolti con le loro famiglie e i loro popoli in questi tragici eventi, recita il documento (Premessa). A questa sfida e a tante altre la Chiesa universale ha provato ad offrire una risposta nei Circoli minori e negli interventi in Aula. Tutto è confluito nella Relazione di sintesi, suddivisa in tre parti, che traccia la strada per il lavoro da svolgere nella seconda sessione del 2024.
Quali sono i temi che a tuo avviso hanno richiesto maggiore tempo di riflessione?
“Sicuramente quello dell’ascolto e della missione. Ascolto di tutti, a cominciare dalle vittime di abusi sono le parole che ha pronunciato il Santo Padre in apertura dei lavori sinodali e penso sia stato molto efficace per lanciare subito le sfide più ardue. La Chiesa ne parla da tempo, forse da sempre, ma non c’è una linea comune, quell’unità tra i cristiani che tanto auspica Francesco. Con questo Sinodo è come se avesse voluto farci riflettere – in rappresentanza delle diocesi, chiese, congregazioni e famiglie religiose – ma anche mettere in pratica azioni e condividere esperienze tra i partecipanti affinché ognuno potesse recuperare, rielaborando, percorsi che già esistono in altri Paesi ma che semplicemente non si conoscono”.
Si parla però da molto tempo di “rete”…
Sì, però di azioni reali come quella che ho vissuto al Sinodo di ottobre non si erano mai intraprese. È anche una questione di coraggio: se ci pensiamo, l’ascolto implica già un atteggiamento coraggioso, una volontà di prendere veramente in mano una situazione e ribaltarla. Altrimenti parliamo di “sentire”, ma penso che è già troppo tempo che “sentiamo”, ma poi ci giriamo subito dall’altra parte, non è affar nostro. Basti pensare al dramma della nuova guerra tra Israele e Palestina. Che mondo ci aspetta a noi giovani? E ai nostri figli? Anche e soprattutto noi cristiani possiamo e dobbiamo prendere posizioni chiare e nette nei confronti delle ingiustizie, rispetto a guerre piene di sangue che hanno solo una vittima: i civili innocenti. E noi? Come rispondiamo a tutto questo odio? Questa è la vera sfida”.
Come nella Lettera al Popolo di Dio, l’assemblea sinodale ribadisce “l’apertura all’ascolto e all’accompagnamento di tutti, compresi coloro che hanno subito abusi e ferite nella Chiesa” (1 e). È ancora lungo il cammino da compiere “verso la riconciliazione e la giustizia”? Quali sono gli strumenti proposti per “affrontare le condizioni strutturali che hanno consentito tali abusi e compiere gesti concreti di penitenza”?
Io credo che la sinodalità, come quella vissuta recentemente, è già una risposta concreta a quanti hanno subito gravi atti come l’abuso. La sinodalità è solo un primo passo, certo, ed è un termine che gli stessi partecipanti al Sinodo ammettono essere sconosciuto a molti membri del Popolo di Dio e che suscita in alcuni confusione e preoccupazioni (1 f), tra chi teme un allontanamento della tradizione, uno svilimento della natura gerarchica della Chiesa (1 g), la perdita di potere o, al contrario, un immobilismo e un mancato coraggio per il cambiamento. “Sinodale” e “sinodalità” sono invece parole bellissime, indicano quello che dovrebbe essere la Chiesa e la sua articolazione, non strutturata in livelli e gerarchie predefinite (sarebbe un’azienda o una multinazionale), ma impregnata di valori fondamentali come la comunione, missione e partecipazione. Un modo di vivere la Chiesa e il mondo, le società, le relazioni e la vita spirituale valorizzando le differenze e sviluppando il coinvolgimento attivo di tutti”.
Cos’è per te la “Missione”?
Sembra un concetto molto astratto, ma alla fin dei conti è un’ideale molto simile alla “sinodalità”, che va poi di pari passo con la missione. È vivere la nostra fede in armonia con le altre comunità, promuovendo la fraternità con uomini e donne di altre religioni, convinzioni e culture diverse, evitando da una parte il rischio dell’autoreferenzialità e dell’autoconservazione e dall’altra quello della perdita di identità. Quello che, come gruppo di giovani uditori, abbiamo fatto emergere è il rischio per i gruppi laici di assumere atteggiamenti “più ecclesiali” degli stessi presbiteri, allontanando soprattutto le nuove generazioni dalla fede e dalla bellezza della condivisione. La missione che sentiamo di assumere è proprio questo impegno di non creare muri tra chi è dentro e chi è fuori, chi è nel gruppo e chi non lo frequenta perché, a lungo andare, genera solo l’effetto contrario: le chiese si svuotano, mentre i santoni del momento tendono ad assumere sempre più forza e credibilità”.
Qual è stato il momento più forte vissuto al Sinodo?
“Ho provato un senso di grande gioia quando Papa Francesco ha ringraziato con fervore i diaconi chiamati a vivere il loro servizio al Popolo di Dio in un atteggiamento di vicinanza alle persone, di accoglienza e di ascolto di tutti. In quel momento il loro applauso e quel senso di pura commozione mi è arrivata dritta al cuore. Da questa esperienza mi porto dietro anche un profondo senso di responsabilità nel non tradire quanto ci ha trasmesso il Santo Padre, ovvero l’impegno in capo a ognuno di noi di contrastare qualsiasi forma di clericalismo, che ha definito duramente una deformazione del sacerdozio […] un’ideologia che porta ad atteggiamenti autoritari e impediscono una vera crescita vocazionale.