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Tessuti e medicine.
Quale riciclo possibile?

La società moderna è alle prese con due problemi scottanti: lo spreco di tessuti e il consumo eccessivo di medicinali. Mentre gli armadi traboccano di vestiti non utilizzati, le montagne di rifiuti tessili inquinano l’ambiente. Nel frattempo, milioni di persone si trovano in povertà sanitaria, mentre i farmaci scaduti o inutilizzati finiscono nei rifiuti, contribuendo all’inquinamento dell’acqua. È tempo di educare alla sobrietà, al riciclo e alla responsabilità in entrambi questi settori per proteggere l’ambiente e le fasce più vulnerabili della popolazione.

È importante considerare due aspetti del consumo compulsivo con i relativi scarti che caratterizzano le società opulente: i tessuti e le medicine.
Quanto ai primi, ogni famiglia ha armadi ingolfati di vestiti che si finisce col non indossare e che ammuffiscono nell’abbandono. Non è abbastanza diffusa l’educazione al riciclo: ciò che non si usa, nella maggior parte dei casi, viene buttato. Eppure più della metà dei tessuti è riciclabile: abiti, lingerie, biancheria per la casa, tovaglie, lenzuola, anche scarpe. Unica eccezione sono gli abiti e i tessuti che contengono sostanze chimiche da buttare direttamente nella spazzatura, come colle forti, vernici o candeggina.
L’industria della moda prospera e produce sempre nuovi modelli, imponendoli attraverso la pubblicità del “Must have”, che invita a cambiarsi spesso e acquistare le ultime novità, che spesso sono riproposizioni del passato. Data la frenesia degli acquisti – diversi chili di indumenti all’anno per persona, secondo lo strato sociale di appartenenza, il genere e il paese – si comprende che le montagne di rifiuti tessili sono una delle principali fonti di inquinamento da plastica che colpisce gli oceani, la seconda più inquinante al mondo, dopo quella petrolifera.
Come in ogni settore di interesse etico-ecologico, anche per i tessuti è fondamentale l’educazione alla sobrietà, ad acquistare e usare i beni realmente utili e riciclare quelli dismessi: è una questione di rispetto verso l’ambiente e verso i più poveri che sanno acquistare a prezzi ridotti e vestirsi con fantasia. Dunque, comprare meno vestiti, riparare quando possibile, valutare le reali esigenze di ciascuno in base alla conformazione fisica, all’ambiente sociale di appartenenza e a quello che si frequenta per lavoro, scegliere capi che promettono una vita più lunga, riutilizzare quelli in buono stato a vantaggio di amici e familiari, accettare di indossare l’usato, tenendo conto delle circostanze. In famiglia si può vivere la gioia del dono. Dopo aver cercato di individuare se c’è al proprio interno o tra i prossimi qualcuno che potrebbe accogliere volentieri un tale dono, si possono fare dei pacchetti e consegnare direttamente gli abiti a enti di beneficenza preposti oppure individuare i punti di raccolta pubblici dedicati, che si trovano sulle strade pubbliche di molte città e depositare i vestiti che non si indossano più negli appositi cassonetti.


Nella società dell’immagine non si accetta di indossare vestiti altrui, eppure vi sono ormai negozi e siti che si occupano di rivendere l’usato. Si vanno diffondendo centri di raccolta specializzati nel riciclo e negozi che trattano indumenti usati. Il riciclo comporta che un tessuto venga tagliato a stracci, ritessuto per fare nuovi vestiti, sfilacciato per realizzare imbottiture per mobili o isolanti per edifici. Solo una piccola parte va all’inceneritore e riguarda prevalentemente il cosiddetto fast fashion, ossia capi di abbigliamento di scarsa qualità, usati per pochissimo tempo, ma che non possono essere rivenduti o riutilizzati perché lisi, scoloriti e sfilacciati. Il riciclo inoltre è un’ottima opportunità di contribuire alla creazione di posti di lavoro, indirizzati alla raccolta, allo smistamento, alla lavorazione, alla vendita. In ogni caso, l’obiettivo è etico-ecologico: non sprecare e inquinare, ma riciclare dando una seconda vita ai capi e riducendo la produzione di nuovi.


Quanto alle medicine, secondo il X rapporto “Donare per curare – Povertà sanitaria e donazione farmaci” (Osservatorio sulla povertà sanitaria di Banco Farmaceutico), in Italia nel 2022, 5.571.000 persone sono in povertà assoluta (9,4% della popolazione) e dunque non possono permettersi le spese necessarie alla sopravvivenza, specie quelle sanitarie: medicine, cure, visite, integratori (“povertà sanitaria”). Di fatto il 7% per ottenere farmaci, visite, controlli, ricorre ad aiuti pubblici o ad enti assistenziali (se ne contano 1806 in Italia). Si calcola che una persona indigente ha in media 9,90 euro al mese da spendere per la salute, a fronte di quanti ne hanno 66,83. Quest’anno i cittadini che si sono rivolti agli enti assistenziali per le medicine sono saliti dell’8,3% rispetto all’anno precedente. Il problema non riguarda soltanto le famiglie in serie difficoltà economiche, ma anche 5 milioni di quelle “normali” che, a causa della crisi, devono limitare il numero di visite mediche o gli esami di accertamento. Infatti parte consistente della spesa farmaceutica resta a carico dei cittadini, dunque delle famiglie e il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) non offre copertura per i farmaci da banco.
A fronte della povertà sanitaria, 1.300.000 italiani consumano, ogni giorno, più di 10 medicine a testa e ne getta un chilo nel cestino, con un danno di 2 miliardi per lo Stato e di 400 euro a famiglia. Lo spreco dei farmaci è una profonda ingiustizia, la stessa che si consuma con il cibo e con i tessuti, ampliando il fossato tra chi non ha i soldi per acquistarli e chi acquista medicinali inutili o prossimi alla scadenza, anche senza la certezza di consumarli. Il più delle volte, passata l’influenza, i medicinali vengono dimenticati nell’armadietto e quando servono di nuovo sono scaduti, inutili e finiscono nel cestino. In testa allo spreco ci sono antibiotici e analgesici, sciroppi, farmaci per l’ipertensione e per lo scompenso cardiaco, antiaggreganti e anticoagulanti: tutte medicine costose.
Una particolare attenzione va rivolta all’inquinamento, giacché a livello planetario, i rischi per animali e persone sono alti. Spesso i farmaci non sono biodegradabili e comunque raramente i sistemi di depurazione delle acque di scarico sono adeguati a filtrare queste sostanze. Fece scalpore anni fa la presenza nel pesce pescato a valle di un impianto di depurazione delle acque di Chicago di farmaci contro la depressione, l’ipertensione, le convulsioni e altri disturbi. Sono stati riscontrati, tra l’altro, effetti di femminilizzazione dei pesci e sterilità delle rane, a causa di residui della pillola contraccettiva. È noto che, negli umani, l’esposizione ambientale indiretta agli antibiotici può creare batteri resistenti e quindi gli esseri umani corrono il rischio di infezioni da batteri non curabili. I ricercatori hanno denunciato 61 componenti di medicine lungo 258 fiumi in oltre 100 paesi in tutto il mondo, specie quelli a basso e medio reddito, come l’Africa sub-sahariana, l’America meridionale e l’Asia meridionale (meno dotati di infrastrutture adeguate, di discariche lungo le sponde dei fiumi e sistemi di gestione delle acque reflue, nonché meno attrezzati nella progettazione e produzione dei farmaci).
Anche in Italia si è registrata la presenza di residui di farmaci nelle acque dei fiumi. Anzi recentemente si è constatata la presenza perfino nelle acque potabili, benché in quantità minime, ma che per l’effetto cumulativo sono preoccupanti, specie per le fasce di popolazioni più vulnerabili (bambini, donne incinte, persone con disabilità, etc.). Si tratta di residui eliminati tramite le urine, le feci, il sudore. Non mancano creme, lozioni, prodotti usati per la doccia, cerotti non assorbiti, che finiscono nelle acque di scarico, si riversano nel terreno, penetrano nelle acque sotterranee e nei corsi d’acqua.
Spetta alla politica provvedere alla costruzione di sistemi di depurazione più efficienti delle acque reflue, orientare la produzione di farmaci biodegradabili, tenere sotto controllo le aziende perché non incoraggino acquisti compulsivi, vegliare sul modus operandi di ospedali e case di cura, perché riducano la quota di inquinamento, orientare le prescrizioni mediche e i farmacisti. Ma occorre pur sempre tornare alle famiglie perché siano responsabilmente disposte a cambiare gli stili di vita, ad assumere il compito di educare ed educarsi all’uso ragionevole dei farmaci, a programmarne il dono se non necessari, a controllare la data di scadenza, a consultare il foglio illustrativo per una corretta posologia, a conservare le medicine in un armadietto, possibilmente chiudibile a chiave, fuori dalla portata dei bambini e in luoghi freschi (i farmaci non vanno lasciati in posti dove la temperatura è superiore ai 25 gradi), ad acquistare la giusta quantità di medicine per evitare la giacenza e la scadenza, a chiedere al medico o farmacista se ci sono confezioni piccole dello stesso prodotto o di un format generico, a evitare di acquistare più confezioni dello stesso prodotto, a controllare eventuali incroci e interferenze con altri farmaci e con alimenti controindicati, a conferirli negli appositi contenitori presenti nelle farmacie o nei centri di raccolta comunali.

Le famiglie che si impegnano in tal senso, dovrebbero periodicamente fare ordine tra le medicine da utilizzare e quelle da donare, individuare i punti di raccolta convenzionati con il Banco farmaceutico (che distribuisce farmaci a circa 557.000 persone in base alle esigenze e alle indicazioni dei medici), tramite “Farmaco amico” o con altre associazioni simili. Con un impegno minimo, tutti possono contribuire alla salute del pianeta, a sostenere le fasce più povere della popolazione e – non per ultimo – a evitare danni alla propria salute, giacché l’eccesso di medicinali è notoriamente dannoso per l’equilibrio del corpo.

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