Alcuni potrebbero pensare che io sia sempre stata una cattolica devota, ma non è così. Anche se sono stata battezzata a 17 anni, ho intrapreso un cammino di conversione spirituale solo all’età di 34 anni e sono diventata missionaria solo undici anni fa, a 44 anni.
Due conversioni
Nonostante i miei genitori non fossero credenti, hanno voluto che frequentassi una scuola cattolica che mi ha dato la possibilità di seguire il catechismo ed essere battezzata. L’intero percorso di catechesi non mi ha toccato profondamente e la mia fede era piuttosto superficiale. Successivamente sono andata a studiare Pubblicità all’università in Canada e, tornata a Hong Kong, ho subito iniziato a lavorare con molto successo. Tuttavia, più ottenevo successo, più mi allontanavo da Dio. Andavo a Messa, ma ero una parrocchiana fredda, concentrata più su me stessa che su Dio. Ma Dio non mi ha mai abbandonata.
“La prima e principale risorsa della missione sono coloro che hanno riconosciuto Cristo risorto, nelle Scritture e nell’Eucaristia, e che portano nel cuore il suo fuoco e nello sguardo la sua luce. Costoro possono testimoniare la vita che non muore mai, anche nelle situazioni più difficili e nei momenti più bui”.
Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2023
Nel 2001, quando c’è stato l’attacco terroristico dell’11 settembre a New York City, io ero nel mio ufficio, impegnata nel mio lavoro fino a tarda notte. Oltre ad essere una maniaca del lavoro, mi piaceva anche fare festa, bere e fumare per alleviare lo stress. Appena ho saputo degli attacchi dell’11 settembre, ho immediatamente chiamato il mio cliente per discutere se dovevamo riprogrammare a causa di questo evento. Ero indifferente all’evento tragico con le tante vittime. Un’amica mi ha telefonato esprimendo la sua ansia per l’attacco terroristico, ma ero troppo occupata e ho riattaccato. Mi ha definita una persona dal “sangue freddo” ma in quel momento non ho reagito, anzi ho pensato: “Cosa c’è di male a essere una persona dal “sangue freddo”? Ho del lavoro da fare!” Così ho continuato a fare telefonate, inviare email e organizzare annunci per i miei clienti fino a tarda notte. Sulla via di casa, però, ho sentito una voce nel mio cuore che mi chiedeva: “Da quando sei diventata così insensibile e dal sangue freddo? Il mondo non ti preoccupa più?” La voce continuava a risuonare nel mio cuore e sapevo che era Dio che mi interrogava, ma non riuscivo a rispondere. Tutto ciò che mi importava della mia vita era il lavoro, il divertimento e me stessa. Nelle settimane successive ho attraversato momenti bui e mi sono vergognata di essere una cattolica fallita. Così ho deciso di riconnettermi con il mondo e con Dio. Sono tornata alla mia parrocchia, ho confessato e condiviso la mia oscurità profonda con il mio parroco e mi sono iscritta al corso di catechismo. Il mio intenso desiderio di Dio mi ha spinto a cercare Lui ovunque: in parrocchia, nella sua Parola, negli studi di teologia, nel volontariato e nel servizio ai poveri, cosa che alla fine mi ha portato su una strada completamente diversa. Preghiera contemplativa, Meditazione Cristiana mi hanno avvicinata a Dio nel silenzio, permettendomi di sentire la Sua voce anche nel trambusto della vita quotidiana. Ero perduta, ma ora ritrovata.
Due chiamate
Dio non mi ha subito chiamata a diventare missionaria. All’età di quarant’anni, nel 2008, mi ha chiamata a lasciare il settore pubblicitario dove avevo lavorato per quindici anni. È stata una decisione difficile perché amavo il mio lavoro, la mia azienda, il mio capo, i miei colleghi e i miei clienti. Avrei potuto continuare a vivere una vita agiata, con un ottimo stipendio. Ero incerta. Lasciare il lavoro mi faceva sentire insicura. Dopo aver pregato per un anno, finalmente, ho deciso. Ho fatto domanda a due ONG religiose e ho lasciato tutto nelle buone mani di Dio. Ringrazio il Signore per essere stata accettata da World Vision di Hong Kong e aver detto addio alla mia carriera quindicennale nella pubblicità. Questa decisione mi ha aperto gli occhi sui problemi globali della povertà e dell’ingiustizia e mi ha dato una comprensione profonda delle cause di queste disastrose realtà. Grazie al mio lavoro, ho avuto l’opportunità di visitare diversi paesi in via di sviluppo come lo Sri Lanka, il Nepal e l’India. Ho incontrato molte famiglie povere e ho ascoltato molte storie strazianti. Ho scoperto che miliardi di persone sono intrappolate ogni giorno nella povertà, nella fame e nelle malattie. Ho anche assistito agli sforzi altruistici di molti volontari/e in prima linea e sono rimasta ispirata e toccata dal loro amore, dalla loro forza e compassione.
Nel 2010 sono andata a Calcutta presso le Missionarie della Carità per un mese, e lì ho sentito che Dio mi chiamava alla vita missionaria. In quel tempo a Calcutta c’era un ampio divario tra ricchi e poveri. I ricchi erano esageratamente ricchi e i poveri vivevano per strada o nelle baraccopoli. Tuttavia, è stato proprio in questo luogo povero, caotico, doloroso e triste che ho visto più amore. Ho prestato servizio in casa di pazienti terminali e giorno dopo giorno, ho lentamente stretto un legame con loro scoprendo tanto amore. Ho anche incontrato molte suore e volontari provenienti da tutto il mondo, di diverse religioni. È stato sorprendente: non avevo mai visto tanto amore in un unico posto. C’erano angeli ovunque. “Sono in paradiso? – mi sono chiesta. Gesù ha detto: beati i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, i misericordiosi. Sì, ho scoperto che a Calcutta i poveri hanno tanto amore, sono umili, addolorati e misericordiosi, sono i più benedetti. In questo stato di benedizione ho sentito sempre più insistente la chiamata di Dio.
Al mio ritorno a Hong Kong, ho contattato l’Associazione dei Missionari Laici Cattolici e sotto la guida dello Spirito Santo e con l’aiuto del mio direttore spirituale e dei miei amici missionari, ho iniziato a discernere la mia chiamata. Dopo mesi di preghiera continua, ero certa che Dio voleva che lo servissi nei poveri. Così è iniziato il mio servizio come missionaria laica in varie parti del mondo.
Calcutta, India: la gratitudine è il segreto della gioia
A Calcutta ho lavorato con ragazze fisicamente e mentalmente disabili. Sebbene avessero tra i 14 e i 40 anni, erano tutte innocenti come bambine. Ero sia operatore sanitario che insegnante. In qualità di operatore sanitario, ero responsabile di lavarle, pettinarle, dar loro da mangiare, cambiare i pannolini, aiutarle ad andare in bagno e lavare i vestiti a mano. Come insegnante, ho dato nozioni di base secondo i loro livelli di intelligenza.
Quando ho visto per la prima volta ragazze gravemente disabili con braccia e gambe storte, stese a letto tutto il giorno, che vivevano nel dolore e nella miseria senza capacità di comunicare, mi sono sentita profondamente dispiaciuta. Non capivo perché Dio dovesse essere così crudele da farle nascere cosi. Ma lentamente mi sono resa conto che, sebbene le ragazze fossero disabili e con problemi mentali, avevano sempre un sorriso sulle labbra. Sorridevano quando cambiavo loro i pannolini, davo loro da mangiare, da bere e giocavo con loro. Erano più felici di me di quando vivevo a Hong Kong. Le loro vite potevano essere dure, ma erano felici. Queste ragazze hanno un animo semplice e puro, ringraziano spontaneamente per le piccole cose, per questo vivono più felici delle persone normali. Mentre pensiamo di essere utili e di servirle, sono loro a toccare i volontari di tutto il mondo e a ispirare molte anime perdute. Siamo troppo abituati a vedere solo corpi imperfetti nelle persone disabili e non anime preziose agli occhi di Dio. Appena arrivata a Calcutta, pensavo che Dio mi avesse mandato a servire le ragazze con disabilità, poi ho capito che Dio voleva che imparassi da queste ragazze; erano le mie insegnanti. Ogni giorno mi hanno aiutato a scoprire i miei difetti e mi hanno insegnato a lasciare andare i miei giudizi soggettivi. Mi hanno aiutato a riscoprire me stessa.
Il mio cambiamento, la mia gioia hanno cambiato anche la percezione dei miei genitori verso di me. Cosi hanno voluto conoscere meglio la mia fede. Nel 2013 sono venuti a trovarmi a Calcutta e si sono stupiti nel vedere la mia gioia di servire i disabili. Anche loro hanno fatto volontariato in una delle case e lo Spirito Santo li ha toccati tanto che, al loro ritorno a Hong Kong, si sono interrogati sulla mia fede cattolica, hanno frequentato il corso di catechismo e sono stati battezzati. Le meraviglie delle opere di Dio sono insondabili!
Molte persone potrebbero pensare che ho sacrificato molto per diventare una missionaria, ma in realtà non ho fatto alcun sacrificio. Se non avessi lasciato andare tutto il mio passato, non sarei la persona che sono oggi, una persona molto gioiosa. Quando penso al mio lavoro in Hong Kong, ricordo i grandi momenti di realizzazione e soddisfazione. Una mia campagna pubblicitaria ha ricevuto molti riconoscimenti e complimenti, che mi hanno motivato e incoraggiato a continuare a lavorare sodo, ma non mi davano una gioia profonda. In seguito mi sono resa conto che il mio successo era solo un’illusione. Le mie ragazze con disabilità mi hanno mostrato la vera gioia, quella molto semplice che non ha nulla a che fare con riconoscimenti umani. Queste ragazze, riconoscenti per le piccole cose, sempre felici, sono vere missionarie della gioia inviate da Dio per insegnarne a me il segreto, per rendermi libera di rispondere alla chiamata di Dio.
Gode, Etiopia: l’evangelizzazione sta nel seminare, non nel raccogliere
Dopo quasi sei anni di servizio a Calcutta, mi sono trasferita in Etiopia, per servire la comunità musulmana di Gode, una piccola città al centro del torrido deserto somalo che soffre di siccità anno dopo anno. Gli abitanti di Gode sono per lo più poveri musulmani somali che vivono in capanne fatte con rami secchi di alberi. Non hanno acqua pulita, cibo nutriente e mancano di assistenza medica. La nostra missione si concentrava sull’aiuto ai più poveri dei poveri della regione: le prostitute, le madri single, i malati e le donne abbandonate. Li abbiamo inseriti nel nostro programma, abbiamo insegnato loro a fare lavori artigianali per diventare autosufficienti e riconquistare la dignità. Ogni giorno queste donne venivano nella nostra parrocchia per realizzare lavori artigianali e noi ci prendevamo cura dei loro figli. Quasi tutte erano sieropositive, alcune di loro avevano addirittura contratto la tubercolosi o altre malattie mortali. È stato straziante vederle morire una dopo l’altra, lasciando soli i figli. Avevamo molto lavoro e molte sfide ed eravamo in pochi nella nostra missione. Avevamo iniziato con un sacerdote, che, però, dopo pochi mesi, è partito per una nuova missione. Anche una suora ha dovuto partire perché le avevano diagnosticato un cancro. La nostra missione era solo nelle mani di tre laici, non avevamo Messa, né Sacramenti, né lezioni di catechismo, ma facevamo del nostro meglio per continuare il nostro programma di artigianato e aiutare le donne povere. Purtroppo, verso la fine del 2019, la parrocchia e la missione di Gode sono state costrette a chiudere.
La grande difficoltà nella missione di Gode, che operava da dieci anni, era causata da fattori politici interni ed esterni. I cattolici erano pochissimi. Prima che la suora lasciasse Gode per le cure contro il cancro, le ho chiesto: “Ne vale la pena restare?” E lei mi ha risposto: “Dato che non verrà nessuno, dobbiamo restare”. Grazie a Dio quella suora è tornata a Gode e, anche se lì non c’è ancora il parroco, ci sono pochi operai e solo volontari occasionali, è felice di stare con le povere donne di Gode per mostrare loro Gesù, condividere il Suo amore e seminare la sua Parola.
Tonj, Sud Sudan: i semi dell’amore non vengono mai seminati invano
Dopo la chiusura temporanea della parrocchia di Gode, le Suore Salesiane mi hanno invitata a lavorare nella missione di Tonj, in Sud Sudan. All’inizio aiutavo nell’insegnamento, ma poi con l’arrivo del Covid19, la scuola è stata chiusa e abbiamo iniziato a lavorare su progetti di riduzione della povertà e di prevenzione del Covid19, insegnavamo come realizzare mascherine, ecc.
Servire nel periodo del Covid19
Sebbene l’impatto del Covid19 in Sud Sudan non sia stato così grave come in altri paesi, ha avuto gravi ripercussioni economiche e sociali. L’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari ha spinto molte famiglie alla fame estrema e alcune sono state costrette a fuggire nei campi per sfollati. Le scuole sono state chiuse in tutto il Paese per un anno e mezzo e questo ha portato a crescenti problemi di violenza domestica e problemi giovanili. Il nostro programma di visitare le famiglie a domicilio ci ha fatto scoprire che molti studenti erano dimagriti a causa del mancato pasto scolastico. Allora abbiamo deciso di concentrare nuovamente la nostra attenzione sulla nutrizione.
Grazie alle donazioni provenienti da tutto il mondo, abbiamo lanciato il “Progetto Milk” per fornire latte gratuito ai bambini malnutriti sotto i cinque anni, alle madri che allattano e agli anziani. Il progetto è durato tre mesi e ha aiutato oltre tremila persone. Abbiamo visto molti giovani portare i loro fratellini e anche i loro anziani a bere il latte, è stato davvero commovente vedere un affetto così grande da parte dei giovani.
Dopo il “Progetto Milk” è nato il “Progetto Seed”. Abbiamo dato 50 kg di semi a ogni famiglia registrata e prestato loro i buoi. Se non avessero cominciato a piantare, la scarsità di cibo sarebbe stata peggiore. Dopo il raccolto, a ogni famiglia registrata chiedevamo 50 kg di semi, solo per insegnare loro il senso della gratuità. Il “Progetto Seed” ha avuto un discreto successo e ha incoraggiato molte persone a tornare a casa e iniziare a piantare. Alcuni hanno lavorato duro nei campi, cercando di immagazzinare cibo e aiutare i vicini affamati, mentre altri sono caduti in preda alla disperazione, alcuni sono arrivati persino a derubare e uccidere. Molti studenti ritornati hanno scelto di insegnare gratuitamente ai giovani come volontari, mentre altri hanno scelto di tornare a scuola e di lavorare con noi nel programma di riduzione della povertà. Certo che di fronte alle difficoltà, si può scegliere di affrontarle positivamente o di scoraggiarsi.
Servire in conflitto
Nel Sud Sudan c’è sempre stato un conflitto tra tribù, civili e militari. Ricordo che durante la mia prima settimana a Tonj ho sentito degli spari di notte ma non sapevo cosa stesse accadendo. Il giorno dopo, il sacerdote ci ha detto che più di 20 persone erano state uccise e una famiglia era stata sterminata per rappresaglia. Quella notte la parrocchia divenne un rifugio per i vicini spaventati. Oltre a sentire gli spari di notte, abbiamo iniziato a sentirli anche di giorno. Un nostro studente e suo cugino sono stati uccisi per una vendetta interrazziale. Ogni volta che c’era un conflitto, i nostri vicini portavano i loro figli e le loro cose nella nostra scuola. Così la scuola, la parrocchia e l’ospedale sono stati trasformati in piccoli campi di accoglienza. Con il peggiorare della situazione, molte persone sono fuggite da Tonj per mettersi in salvo.
Potremmo pensare che le persone che si vendicano e uccidono siano cattive, ma in realtà non è così. Fin dalla tenera età vengono istruite a combattere per le fonti d’acqua e per la terra del loro clan e uccidere i nemici li rende eroi. Uccidere per vendetta è una tradizione, un modo per proteggere la famiglia e sopravvivere. Credo che agli occhi di Dio, nostro Padre non esistono persone cattive, solo persone che fanno cose cattive. Nei luoghi di conflitto, dobbiamo seminare i semi dell’amore e della pace.
Il primo passo verso la pace è “credere” che anche i nemici sono umani. Nel 2020 la nostra scuola era chiusa a causa del Covid19 ma James Mawut, un nostro studente, veniva sempre a lavorare con noi. Un giorno, suo cugino è rimasto vittima innocente in un raid mortale civile-militare che ha ucciso oltre 200 persone. James era molto triste, ma mi ha detto che reagire era sbagliato e inutile. Voleva solo che pregassimo per sua sorella e la famiglia. James non voleva essere amico dei suoi nemici, ma era disposto a perdonare perché capiva che erano anche vittime del peccato strutturale. James mi ha fatto capire che i nostri nemici sono esseri umani e sono anche figli di Dio. Solo così possiamo costruire la pace e fermare il ciclo di ritorsioni.
Servire dopo il Covid19: Dio provvede
Alla riapertura della scuola sono andata a insegnare inglese e religione presso la scuola del “Programma di apprendimento accelerato” (ALP) di Santa Bakhita per ragazze maggiorenni povere. Dopo alcuni mesi, mi è stato chiesto di assistere le suore in un progetto di formazione agricola a Tonj. All’inizio ero molto riluttante ad accettare questo incarico poiché non sapevo nulla di agricoltura e non avevo alcun interesse, ma alla fine ho accettato poiché le sorelle erano estremamente a corto di personale. Ebbene, mi sono detta: “Se questa è volontà di Dio, Dio se ne prenderà cura”.
Il Progetto di Formazione Agricola non è stato facile fin dall’inizio per la sua la complessità, era difficile tenere la situazione sotto controllo. Tuttavia, osservando come le nostre tirocinanti affrontavano le difficoltà (tutte donne contadine povere), l’ansia nel mio cuore diminuiva di giorno in giorno. La maggior parte di queste donne contadine erano madri analfabete poco più che ventenni e ciascuna portava un peso insopportabile sulle proprie spalle. Per il bene dei loro figli, invece di sedersi e lamentarsi, volevano cogliere l’opportunità di migliorare la loro vita. Guardarle mentre cercavano di leggere e scrivere, cantare e lavorare felici nel campo sotto il sole, ha spazzato via tutto il mio stress e la mia ansia. Vedendo i loro sforzi nel superare le difficoltà e le sofferenze, non potevo lamentarmi.
Ringrazio Dio per avermi inserita nel progetto di formazione agricola perché le testimonianze vere di queste donne distrutte dalle avversità, hanno chiarito la mia confusione interiore. Mi sono convinta sempre di più di dover solo avere fiducia in Dio e fare umilmente ciò che Lui vuole. Dio sempre si prende cura di noi.
Nel luglio del 2022, nonostante amassi tanto la missioni Tonj, ho deciso di prendermi un anno sabbatico, in modo da poter trascorrere più tempo con i miei genitori anziani. Ringrazio tutte le suore salesiane, per avermi regalato un’esperienza così speciale, memorabile e benedetta, e per avermi mostrato con le loro vite cosa significa essere una vera missionaria.
Guardando indietro
Quando ripenso alla mia vita missionaria, alle sfide e alle difficoltà incontrate, vedo sempre Dio accanto a me. Dio non mi ha mostrato solo il suo amore, ma anche la sua premura. Non mi ha chiesto di fare cose che non potevo affrontare. Dio ci chiama sempre nelle piccole cose della nostra vita quotidiana. Quanto a me, nell’attentato dell’11 settembre, mi ha chiamata e mi ha condotto passo dopo passo nel mio cammino missionario.
Dio ha il suo grande piano su ognuno di noi. Ognuno di noi è prezioso e unico ai suoi occhi. Tutti noi riceviamo chiamate e missioni diverse. Finora, la mia chiamata è stata quella di servire i poveri tra gli svantaggiati, mentre la tua chiamata potrebbe essere quella di prenderti cura dei tuoi figli e testimoniare la gioia di una vita piena nel Signore, o di lavorare sodo e testimoniare il tuo ruolo come buon amministratore. La chiave sta nella nostra risposta. Solo aprendoci a Lui nella preghiera possiamo ammorbidire i nostri cuori induriti e permettere a Dio di toccarci e chiamarci attraverso le persone e le cose intorno a noi. Quando rispondiamo alla Sua chiamata, Egli ci conduce passo dopo passo nel nostro cammino per vivere secondo il suo piano.
Ma se i nostri cuori sono troppo occupati, non ascoltiamo la chiamata di Dio. Se i nostri cuori sono troppo duri, non saremo toccati dalla sua chiamata. Se sentiamo e siamo toccati dalla sua chiamata ma non rispondiamo subito perché non riusciamo a lasciare andare certe cose, il nostro Padre misericordioso non ci forzerà, ma ci darà il tempo per preparare i nostri cuori. Ognuno ha il proprio modo e i propri tempi per rispondere alla chiamata del Padre. Manteniamo sempre un cuore libero e non stanco, in ascolto della sua chiamata nella nostra vita quotidiana e vivendo una vita piena in Lui.
Dio è sempre buono.