Questa naturalizzazione della violenza genera spesso l’idea che la violenza sia naturale per gli esseri umani e necessaria per risolvere i conflitti esistenti. Cambiare questa prospettiva “violentologica”1 è fondamentale per pensare a una cultura di pace. A tal fine, dobbiamo innanzitutto essere in grado di riconoscere i discorsi e le narrazioni che legittimano la violenza e che fanno parte del nostro universo culturale, direttamente o indirettamente.2
Se superiamo l’idea che la pace sia un’astrazione utopica segnata dall’assenza di conflitto, ma la consideriamo invece come un processo in costruzione, in cui i conflitti si risolvono pacificamente attraverso il dialogo e la negoziazione dei significati, allora, possiamo credere che la pace sia perfettamente possibile e raggiungibile per gli esseri umani. In questa prospettiva, rompere con il presupposto che la violenza, l’aggressività e la guerra siano naturali e necessarie diventa un processo di decostruzione culturale che necessita di essere appreso.
Perché questa decostruzione avvenga, è importante riconoscere le situazioni di violenza non solo nei grandi conflitti armati, ma anche nelle strutture di ingiustizia che generano violenza, come la concentrazione della ricchezza e l’aumento della povertà, la situazione di emarginazione alla quale intere popolazioni sono soggette a causa della mancanza di risorse fondamentali per la loro sopravvivenza, i cambiamenti climatici che colpiscono direttamente e in modo più aggressivo le popolazioni povere, il dominio culturale e ideologico, tra le altre forme di violenza strutturale.
Su un piano più personale, è anche possibile identificare i discorsi e le narrazioni che permeano la nostra vita quotidiana e uscire da un atteggiamento di neutralità di fronte ai conflitti, assumendo così un atteggiamento di difesa dei valori e della dignità umana. Ciò presuppone una posizione dialogica, segnata dall’alterità, in cui siamo in grado di riconoscere i sentimenti, le emozioni e le ragioni dell’altro.
Per pensare alla pace dobbiamo riconoscere il grido messo a tacere di coloro la cui voce è soffocata e che, in assenza di qualcuno che li ascolti, si fanno sentire attraverso la violenza e le reazioni aggressive. Secondo Paulo Freire “la pace non precede la giustizia, quindi il modo migliore per parlare di pace è parlare di giustizia”. La costruzione di una cultura di pace implica necessariamente la capacità di indignarsi di fronte alle situazioni di ingiustizia, perché per ricostruire un mondo in cui la pace abbia radici coerenti è inevitabile decostruire il mondo che si fonda sul paradigma della violenza.
Martínez Guzmán, Comins Mingol e París Albert parlano della necessità di una svolta epistemologica, che significa ascoltare le voci messe a tacere dalla cultura egemonica, come le donne, le culture non occidentali e la natura stessa. Secondo questi autori la svolta epistemologica sarebbe la capacità di rompere con il pensiero unico esistente, denunciando l’asservimento delle altre culture alla cultura occidentale. Si tratta di assumere una prospettiva critica, che ci permetta di riconoscere la violenza e le ingiustizie esistenti, e una prospettiva costruttiva, caratterizzata dalla ricerca di soluzioni pacifiche.
Costruire una cultura permeata dalla pace implica alcuni presupposti, quali:
• Empatia: come condizione per riconoscere la posizione dell’altro. Questo vale per entrambe le parti in conflitto. Ad esempio, nella violenza dell’uomo contro le donne. Cosa prova una donna quando viene aggredita? Ma cosa prova anche un uomo quando aggredisce? L’empatia ci permette di andare alla radice dei conflitti e individuare gli elementi culturali, sociali, ideologici e religiosi che sono alla base dell’agire umano. Se non c’è la ricostruzione dei paradigmi elementari, accade quello che diceva Paulo Freire a proposito dell’educazione: “quando l’educazione non è liberatrice, il sogno dell’oppresso è quello di essere l’oppressore”.3
• Riconoscere se stessi e l’altro come persona che, a prescindere dallo status sociale, culturale, religioso o ideologico, gode dei diritti umani fondamentali. Questo è molto complesso nell’attuale contesto caratterizzato dai media digitali, che tendono a contrapporre alcuni gruppi ad altri, polarizzando coloro che la pensano diversamente e portandoli a vedersi come nemici. Un mondo di pace non sarà mai un mondo omogeneo o privo di conflitti. Il fatto di avere pensieri opposti non può far emergere l’odio sociale, come si vede in molte realtà.
• Un linguaggio non violento: è forse uno dei presupposti più difficili da realizzare. In primo luogo perché i media ne fanno uso massiccio, non solo con parole aggressive, ma anche nel modo in cui vengono pronunciati i discorsi, così da suscitare paura, senso di insicurezza, di minaccia, come se fosse necessario essere sempre in una situazione difensiva di fronte agli altri che sono pericolosi. È in nome dell’autodifesa che le nazioni spendono miliardi in armamenti e risorse militari. La logica è che ognuno deve essere pronto a reagire di fronte all’aggressività dell’altro.
È importante pensare cosa significano cultura di pace e cultura di violenza per poter comunicare la pace tanto attesa con criticità, realismo e speranza. Innanzitutto, dobbiamo credere che la pace è possibile, in modo che le nostre azioni, i nostri gesti e anche le nostre parole scaturiscano da questa convinzione profondamente evangelica, così necessaria oggi.
- Muñoz Francisco, La paz imperfecta, Granada, 2001. ↩︎
- Martínez Guzmán, Comins Mingol, París Albert, 2009, La nueva agenda de la filosofía para el siglo XXI: los estudios para la paz. Convergencia. Revista de Ciencias Sociales, vol. 16, pp. 91-114. ↩︎
- Freire, Paulo, Pedagogía del oprimido, Madrid: Siglo XXI, 1970. ↩︎
Glossario
Violentología
Campo di studio, con specialisti chiamati violentologi, che esiste in America Latina, soprattutto in Colombia. Si tratta di un approccio allo studio che enfatizza la violenza e la guerra come oggetti degni di analisi, mentre la pace viene spesso trascurata. Ciò crea una dissonanza cognitiva: la pace è desiderata ma pensata in termini di violenza. Questo approccio, come descritto da Francisco Muñoz, porta a una visione distorta della realtà, in cui la violenza è percepita come più presente di quanto non sia in realtà. Questo pregiudizio è stato particolarmente diffuso nelle discipline storiche e antropologiche, rafforzando una visione negativa e violenta della natura umana.
Svolta epistemologica
Espressione usata per designare come si è costituito il pensiero sociale latinoamericano in relazione alle diverse discipline, in opposizione al pensiero occidentale ed eurocentrico predominante. Ciò comporta rotture paradigmatiche nelle rappresentazioni anticoloniali, che danno luogo a nuove narrazioni che interferiscono nella scienza, nella storia e nella politica. Si tratta, in altre parole, di un modo diverso di intendere le diverse discipline del sapere, riorganizzandole in base a uno spostamento temporale e spaziale che consente altre interpretazioni della realtà.
Odio sociale
È un fenomeno che comporta intensi sentimenti di avversione, ostilità o animosità verso specifici gruppi o categorie sociali. Questi sentimenti possono essere motivati da differenze di razza, etnia, religione, orientamento sessuale, genere, classe sociale, tra gli altri fattori. L’odio sociale può portare a comportamenti discriminatori, aggressioni verbali o fisiche e persino violenza contro i membri di questi gruppi target, comportamenti rafforzati dall’incitamento all’odio, soprattutto nei media digitali.