La pace lontana
La pace si è pericolosamente allontanata dall’orizzonte del futuro. È scomparsa in tanti paesi, come l’Ucraina aggredita dalla Russia due anni fa, in Terra Santa, dopo il terribile attacco di Hamas del 7 ottobre scorso e la risposta israeliana. La pace non c’è più in Sudan, diviso in due dalla guerra. Drammatica è la situazione della Siria. Potrei continuare per ricordare come la pace si è smarrita sull’orizzonte internazionale. Ormai si parla solo di guerra. In Europa si teme l’aggressione russa, cioè l’allargamento delle mire espansioniste russe. Intanto si investe sulle armi e l’industria bellica moltiplica il suo fatturato. Parliamo di guerra e dei rischi di nuovi conflitti. Non dovremmo farlo? Dovremmo lasciarci sorprendere dalla guerra? Non affermo assolutamente questo. Il realismo, quando si vive nella storia, è una necessità. E noi tutti viviamo nella storia del nostro tempo, quella storia che, purtroppo, in alcuni casi ci travolge.
Non è realismo però aver cancellato la pace dal nostro orizzonte. Si potrebbe dire che la responsabilità è di chi fa la guerra: i signori della guerra. Infatti, su tanti scenari del mondo, incontriamo veri e propri signori della guerra. Anche in Africa: il terrorismo islamista aggredisce interi paesi e colpisce gli innocenti. Ma possiamo giocare di rimessa nei confronti di chi vuole e fa la guerra, aggredendo e compiendo azioni terroristiche? Bisogna resistere: gli ucraini lo hanno fatto coraggiosamente.
Ma bisogna anche ascoltare le voci di coloro che chiedono la pace. Negli ultimi anni, è cresciuta invece l’assuefazione all’idea che la guerra sia una compagna naturale della storia. Invece c’è la domanda di tanti, che non hanno pace. Tante domande di pace sono da ascoltare. È quanto propone papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, che è anche un testo sulla pace, che trova posto accanto alla Pacem in terris di Giovanni XXIII. Papa Bergoglio parlando della guerra afferma: “Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male”. È un’impressionante definizione della guerra come fallimento della politica (si lascia campo alle armi e non alla negoziazione o all’azione diplomatica), ma anche dell’umanità. Infine è una resa alle forze del male. Perché -bisogna riconoscerlo- la guerra è un’incarnazione del male. Diceva un antico papa del Medio Evo, Nicolò I, “la guerra è satanica”.
Avvicinarsi a chi soffre la guerra
Ma ritorniamo alla Fratelli tutti. Papa Francesco invita ad ascoltare le voci che chiedono la pace: propone una via, quella di avvicinarsi ai “feriti”, in senso largo, della guerra. Scrive: “Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come ‘danni collaterali’. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace.”
Il papa invita a prendere contatto personalmente con le vittime delle guerre, ad interrogare i profughi, a seguire le storie delle persone, dei gruppi, dei popoli. Purtroppo le tante immagini e informazioni ci rendono, se non indifferenti, abituati al dolore dei popoli in guerra. Una frase attribuita a Stalin spiega bene la reazione di fronte alla gran massa di notizie sui dolori della guerra: “La morte di un uomo è una tragedia; la morte di milioni di uomini è una statistica”.
Il papa continua: chi parla di pace viene trattato spesso come ingenuo, irrealista, utopista. O peggio: come connivente con l’una delle parti in conflitto, equilibrista tra chi ha torto e tra chi ha ragione. Del resto, talvolta, è la sorte di papa Francesco, trattato come un utopista o peggio, quando parla di pace e afferma che è l’unica via percorribile. Si potrebbe concludere tristemente che si è molto ridotto lo spazio di un discorso sulla pace. Altri potrebbero dire che questa è la realtà. Le voci che chiedono pace sono allora soffocate dalle logiche di guerra? Che cosa è successo nel nostro mondo?
Si è smarrita la memoria della seconda guerra mondiale con i suoi dolori. È quasi scomparsa la generazione che l’ha vissuta. Quel terribile conflitto che ha causato (la cifra è incerta, ma ugualmente drammatica) tra i 60 e i 68 milioni di morti. Ed alcuni paesi hanno pagato un prezzo incredibile. L’Unione Sovietica, nel conflitto, ha perso quasi il 15% della sua popolazione, 25 milioni. La piccola Singapore ha perso quasi il 29% degli abitanti. Sono caduti quasi il 10% dei tedeschi, più dell’11% dei greci, il 16% dei polacchi. Si potrebbe continuare: una vera carneficina.
Sono scomparsi i testimoni della Shoah, che hanno ricordato al mondo lo sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti, avvenuto nel cuore della seconda guerra mondiale. Certamente l’isolamento della Germania nel conflitto lo ha facilitato. Del resto la strage degli armeni e dei cristiani, a partire dal 1915, nei territori dell’impero ottomano, il primo genocidio del Novecento, avvenne proprio nel cuore della prima guerra mondiale e in un paese belligerante. Essere consapevoli di questo vuol dire avvicinarsi alla realtà della guerra di ieri e di oggi.
Un mondo globalizzato, ma meno unito
Dall’orrore del conflitto, pur in tempo di guerra fredda, era sorto un discorso di pace che sembrava preparare un mondo meno bellicoso e una comunità internazionale più funzionante dopo il 1989. Invece non è avvenuto. Amin Maalouf, intellettuale libanese, ha scritto: “Con il senno di poi, è chiaro che il ‘periodo di grazia’ di cui hanno goduto gli Stati Uniti alla fine della guerra fredda avrebbe dovuto essere utilizzato per nuovo sistema internazionale, in cui… tutti gli altri attori della scena internazionale avrebbero dovuto avere un loro posto… Ma è facile, a posteriori, dare la colpa all’America, che ha dovuto navigare senza bussola in acque sconosciute…”.
La comunità internazionale è entrata in crisi, come si vede dal diminuito ruolo delle Nazioni Unite. Anzi si è andato smorzando quel patrimonio di cultura, ereditata dal Novecento che tendeva a unire i destini oltre i confini, le contrapposizioni e i conflitti. Giorgio La Pira, l’iniziatore dei dialoghi mediterranei, le chiamava “tensioni unitive”: le tensioni alla pace, l’ecumenismo, la responsabilità verso i mondi più poveri, la cooperazione per una giustizia planetaria, il dialogo come strumento di incontro e di soluzione.
La crisi attuale è avvenuta proprio mentre il mondo è stato “unificato” dai processi di globalizzazione, mentre la crisi della terra rivela, con un’evidenza indiscutibile, che abbiamo un solo destino: “siamo tutti sulla stessa barca” -ha detto papa Francesco in un momento grave durante la pandemia. “Tutti sulla stessa barca”: una verità talmente evidente che la si dimentica continuamente; una verità mai scontata però. Il maliano Lassana Bathily, testimone dei fatti terroristici avvenuti a Parigi nel 2015 all’interno di un supermercato kosher, ad opera di sedicenti musulmani che uccisero ebrei ed altri cittadini, ne salvò alcuni dai terroristi islamisti: “Sì, ho aiutato gli ebrei – disse –. Siamo tutti fratelli. Non è questione di ebrei, cristiani e musulmani, siamo tutti sulla stessa barca”.
Dall’immigrato maliano al papa di Roma, la coscienza del destino comune dell’umanità percorre mondi diversi. In questa coscienza ci sono le risorse per un’immaginazione alternativa che disegni una visione di pace a fronte di pensieri stanchi e rassegnati, anzi dominati da una logica di guerra. Senza immaginazione alternativa, restiamo prigionieri di un presente senza speranza, destinati a subire l’iniziativa degli altri o la loro prepotenza o le loro aggressioni. Subire e reagire senza immaginare altro, ci rende prigionieri della logica degli aggressori o dei violenti. Si combatte, avendo perso ogni prospettiva o immaginazione di pace.
La guerra come strumento
Si è ormai riabilitato, nella pratica come nei discorsi politici, lo strumento della guerra per risolvere i conflitti politici. È un fatto sotto gli occhi di tutti. Nel 2023, la piccola enclave armena del Nagorno Karabakh è stata occupata militarmente dalle truppe dell’Azerbajan, di cui fa parte giuridicamente. Si tratta di una regione in cui la presenza armena è più che millenaria e che aveva proclamato la sua indipedenza. Con l’occupazione militare più di 100.000 armeni sono andati in esilio, lasciando quella patria ancestrale. La forza e la guerra sono state riabilitate come strumento di soluzione dei conflitti, mentre il dialogo è stato accantonato. Pio XII, nel 1944, sul finire della seconda guerra mondiale, affermava: “la teoria della guerra come mezzo adatto e proporzionale a risolvere i conflitti internazionali è ormai sorpassata”. In realtà, purtroppo non solo la teoria, ma anche la pratica della guerra, è molto attuale.
In questi ultimi anni ho più volte affermato che le guerre contemporanee si eternizzano per la potenza degli armamenti a disposizione, come per la carenza di immaginazione alternativa ai conflitti. Edgar Morin, dall’alto della esperienza storia e umana dei suoi 101 anni, ha detto: “Più la guerra si aggrava, più la pace è difficile e urgente”.
Nella memoria delle guerre dolorose del passato, troviamo elementi ed energie per una visione di pace. La speranza comincia con il rifiuto di una lettura scontata del presente, senza guardare oltre. Il presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, ha detto ad Assisi nel 2022: “Non ci arrendiamo alla logica della guerra, che consuma la ragione e la vita delle persone e spinge a intollerabili crescendo di morti e devastazioni. Che sta rendendo il mondo più povero e rischia di avviarlo verso la distruzione”.
La guerra consuma drammaticamente ogni giorno tante vite umane. Ma, d’altra parte, consuma anche la ragione: quella ragione così necessaria alla politica e alle relazioni tra Stati. La comunità internazionale e il sistema delle relazioni tra Stati, pur con le sue cadute, supponeva una razionalità nei discorsi, nelle decisioni e nelle reazioni. In realtà, il campo è oggi dominato fortemente dalle emozioni, anzi da una vera politica delle emozioni. È difficile dialogare a livello emozionale, perché il dialogo richiede razionalità. Meno si dialoga e più cresce la contrapposizione. La guerra sembra l’unico strumento politico.
Sono osservazioni che spero, almeno in parte, siano condivise. Anzi ho spesso la sensazione che questi pensieri siano condivisi e, nei sistemi democratici, la gente sia più favorevole alla pace dei governanti. Il che non succede in Russia, dove la guerra all’Ucraina e Putin hanno un forte consenso. La vera domanda è su di noi, la gente comune: che possiamo fare di fronte alle decisioni di guerra, più grandi di noi e spesso dei nostri paesi? Ci si scopre impotenti. L’impotenza genera indifferenza. Se non posso nulla, perché interessarmi o coinvolgermi?
Che possiamo di fronte alla guerra?
Una delle conseguenze della guerra, infatti, è gettare la maggioranza in uno stato d’impotenza. Noi tutti, gente comune, non possiamo restare indifferenti di fronte alla sofferenza di tanti e al futuro nostro e dei nostri figli. Tuttavia il movimento pacifista, forte all’inizio del XXI secolo, sembra oggi ridotto e poco capace di mobilitare le persone. È anche una conseguenza del cambiamento radicale del mondo globale: la dimensione dell’“io” prevale su quella del “noi”, tanto che sono in crisi molte forme di aggregazione umana: dalla famiglia, ai partiti politici, ai sindacati, alle comunità religiose e via dicendo…
Ma i cristiani non possono essere indifferenti di fronte alla guerra. Nella Chiesa, lungo il Novecento, tra orribili guerre, e nel nostro secolo, è cresciuta la coscienza del valore della pace. Il magistero di tutti i papi, da Benedetto XV a Francesco, è una vera profezia di pace. In realtà i cristiani si sono sentiti sempre chiamati alla pace e a fare la pace: Clemente d’Alessandria parlava dei cristiani come eirenikon genos, popolo di pace, pacifico e pacificatore. Tra i popoli del mondo, la Chiesa cattolica, che vive in tutte le nazioni e si ritrova attorno al papa, servitore del bene comune dell’umanità, è chiamata ad essere eirenikon genos: un popolo di artigiani di pace.
Possiamo essere artigiani di pace nella partecipazione ai problemi lontani da noi, resa facile dalle comunicazioni globali, anche se spesso le situazioni sono complesse da capire e la guerra non è mai un game o una partita di calcio. Se sono appassionato alla sorte di qualcuno, m’informo. Sapere, informarsi, seguire, è partecipare in modo ravvicinato, non voltarsi dall’altra parte. Un’opinione pubblica viva influisce sulle vicende e le determinazioni politiche. La distrazione favorisce decisioni poco pensate dei signori della guerra. La solidarietà con i feriti dalla guerra e l’accoglienza ai profughi è lotta contro la guerra.
C’è poi la preghiera per la pace. Diceva Giorgio La Pira, che teneva fra le mani la Bibbia e la carta geografica dei popoli: “credo nella forza storica della preghiera”. Invitava a pregare per la pace anche i poveri che radunava alla Badia fiorentina. Dovremmo pregare di più per la pace nelle chiese: i nomi dei paesi dovrebbero scorrerci tra le mani come i grani del rosario. La preghiera tocca il cuore di Dio e crea la pace. Scrive il teologo riformato Karl Barth: Dio “non è sordo, ascolta, agisce. Egli non agisce allo stesso modo se preghiamo o non preghiamo. C’è un’influenza sull’azione di Dio, sull’esistenza di Dio… Le nostre preghiere sono fragili e misere. Ciò nonostante quello che conta non è che le nostre preghiere siano forti, ma che Dio le ascolti”.
Solidarietà, preghiera, partecipazione sono l’“attacco” dei disarmati e dei pacifici alla guerra. Fare pace è ricucire la frattura tra popoli e tra persone. La guerra comincia prima dell’inizio delle ostilità. E qui che c’è ancora possibilità di agire, di limitare le fratture. L’odio e l’assenza di dialogo creano fossati. Ce lo insegna la prima lettera di Giovanni: “chiunque odia il proprio fratello è un omicida” (3,15). In questo senso la gente comune può arginare l’odio nella società, può seguire appassionatamente le situazioni di sofferenza, può “contare” sulle sorti del mondo, pregando con fede perché Dio doni a tutti la pace, quella che il mondo non sa darsi.