Un compito arduo

Per rendere l’idea di fraternità, Papa Francesco, usa l’immagine di tanti fili multicolorati che, tessuti insieme, formano un magnifico e unico tappeto. Egli scrive che «l’amore di Cristo ci chiede di mettere da parte ogni tipo di egocentrismo e di competizione; ci spinge alla comunione universale e ci chiama a formare una comunità di fratelli e sorelle che si accolgono e si prendono cura gli uni degli altri». Vista in quest’ottica, la pace, è una dimensione che dovrebbe far parte continuamente della vita. La pace è qualcosa che si percepisce nelle persone che vivono intorno a noi, così come la sofferenza, la noia, l’odio o l’amore e, in quanto tale, essa può essere contagiosa. Un sorriso che sdrammatizza la tensione, la carezza che porta la pace nell’animo triste di un bambino che piange o nel volto rabbuiato di un adolescente. Sono molti i piccoli “gesti” quotidiani, che concorrono già, in sostanza, ad una “formazione alla pace”.

Pace e conflitto
Recentemente si è sviluppato un filone di ricerca, specialmente in ambito educativo, che considera la pace coerente con il conflitto.
Questa visione assume il conflitto come un elemento generativo, creativo, come una risorsa all’interno della costruzione di una serie di relazioni che non possono prescindere dal valorizzare e contenere la diversità. In primo piano emerge la difficoltà nel decentrarsi, nel capire le ragioni altrui, nell’accettare la divergenza.
La sfida dell’educazione alla pace sta in questo: nel creare le condizioni affinché il rapporto possa alimentarsi non solo nella simpatia ma anche nella discordanza e nella diversità.
Questa sfida è imprescindibile all’interno di una società che diventa sempre più densa di complessità etniche e sociali, in cui i cambiamenti sono molto rapidi.
L’educazione alla pace può essere intesa, quindi, come processo di apprendimento di un’arte della convivenza che supera la semplice tolleranza e il controllo della diversità. Un’arte della convivenza che diventa un percorso continuo, incessante, che porta ad acquisire la capacità di stare dentro il conflitto e a considerare la diversità come un momento di crescita, e non più come un fattore di paura o di minaccia. Le vere relazioni umane consentono il conflitto, ossia il confronto, lo scambio, la divergenza e l’opposizione.

Affinché il conflitto si trasformi in risorsa è necessario non confonderlo con la violenza. La violenza nasce dall’incapacità di non saper rimanere nella situazione conflittuale e nella realizzazione della chiusura della relazione, mentre il conflitto designa uno spazio che è ancora quello della relazione.

Altro elemento importante da tenere presente è di non porre al primo posto nel conflitto la sua soluzione a tutti i costi. Se si fa propria la logica della soluzione, ancora una volta si rischia di evitare l’incontro con l’altro. Il conflitto rappresenta, invece, un’occasione per cercare di capire l’altro e di imparare da lui qualcosa.

Atteggiamenti concreti

Il conflitto che non può essere risolto può essere trasformato attraverso alcuni atteggiamenti che soprattutto gli educatori sono chiamati a mettere in campo nelle situazioni educative concrete come suggerisce il pedagogista Daniele Novara.

Il conflitto è un problema da gestire, e non una guerra da combattere. In ambito educativo, succede spesso che gli educatori siano più propensi ad abolire il conflitto contrastando direttamente chi lo porta invece di affrontare la situazione. È più facile per l’educatore, l’educatrice, spesso e volentieri, annichilire il soggetto che porta il problema che non affrontare il problema stesso. È importante prendere atto dell’esistenza di una situazione critica e cercare di affrontarla.

Conta fino a dieci prima di agire. Questo vuol dire saper aspettare il momento giusto, prendere tempo, evitare le reazioni impulsive e compulsive. Tutte le volte che si può evitare una reazione immediata si rafforza la possibilità che una provocazione possa essere trasformata in un’esperienza di apprendimento. Prendere tempo consente all’educatore di spostare il conflitto da una logica reattiva a una logica di comunicazione. In ambito educativo molti bambini e ragazzi hanno difficoltà e vanno aiutati sistematicamente ad andare oltre la loro tendenza alla reazione immediata e spesso aggressiva.

Non fare muro contro muro. Questo rimanda al momento trasformativo del conflitto, alla possibilità di elaborare la provocazione in senso non simmetrico, trovando una strada diversa da quella che la provocazione suggerisce. È un momento sdrammatizzante: quando c’è tensione il primo passo da fare è abbassare il livello della tensione, consentire la decantazione, evitare l’avvitamento e il frequente deragliamento dai contenuti stessi del conflitto. Questo è un fenomeno che compare in tutti i conflitti, anche in quelli familiari.

Rispetta i contenuti del conflitto. Strettamente collegato al precedente, invita a evitare le “risposte tangenziali”, molto diffuse nella comunicazione conflittuale distorta. Quando non si riesce ad assumere il problema in quanto tale, ma si rimanda sempre a un quadro generale, a una situazione precedente, a un contesto di antipatia o simpatia personale, si ricorre a risposte tangenziali. In ambito educativo, il ragazzo o la ragazza che propone qualcosa che ha un forte contenuto perturbativo, se affrontato debitamente gli consente di sentirsi riconosciuto. La risposta tangenziale è invece umiliante, perché non riconosce all’altro la possibilità di proporre dei contenuti conflittuali e quindi di proporre una propria visione delle cose. Ciascuno di noi nel momento in cui non coglie nella comunicazione il rispetto di ciò che ha espresso avverte solo la sensazione di fastidio che sta creando all’altro.
Evita il giudizio stigmatizzante; sperimenta la critica costruttiva. Ci sono due dimensioni nella gestione educativa del conflitto particolarmente importanti: la dimensione dell’ascolto e la dimensione del contenimento. Il giudizio è il contrario dell’ascolto. La “critica costruttiva” è una modalità di porgere all’altro una serie di osservazioni senza suscitare un senso di minaccia, senza che l’altro si senta giudicato.

Sappi dire di no, quando occorre. Nell’ambito dell’educazione alla pace è molto più pericolosa una posizione di passività, di conformismo, che non una posizione di divergenza e di critica attiva e creativa. Il saper dire di no è una competenza essenziale in un contesto di crescita. Saper dire di no vuole indicare la necessità di staccare la spina, evitare un’adesione conformista a delle procedure che possono danneggiare. I ragazzi si trovano spesso coinvolti in gruppi dentro ai quali possono svilupparsi azioni o comportamenti lesivi nei confronti degli altri.

Nel rapporto educativo, gli educatori sono chiamati ad assumere la capacità di dire di no, tollerando anche la frustrazione che questo comporta nei ragazzi. Dire di no significa assumersi una responsabilità adulta. Questo aiuta i ragazzi ad acquisire lo stesso atteggiamento nel momento in cui si trovano in situazioni in cui dire di no potrà salvaguardarli dal pericolo.
L’educazione alla pace è un processo di alfabetizzazione relazionale nel cuore dei processi sociali del nostro tempo, per garantire agli attori sociali, a partire da quelli che sono i protagonisti dei momenti formativi, la capacità di leggere, di riconoscere e di produrre una cultura che sappia vivere il conflitto come un’esperienza di crescita, come una risorsa e non come problema.
È un processo che nasce nella relazione. Non si tratta di insegnare contenuti pacifisti, ma di riconoscere la possibilità di uno scambio continuo con l’altro.
L’educazione alla pace ha la necessità di rivedere sempre i contenuti che vengono trasmessi da una generazione all’altra, specialmente nell’ambito dei temi legati al nazionalismo, al razzismo, all’intolleranza. In quest’ottica assume un’importanza fondamentale la formazione degli educatori, una formazione nuova che sappia incidere sulle capacità di relazionarsi delle nuove generazioni.

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