Educare alla Pace

Viviamo un tempo di guerre e tensioni, violenze che si consumano, sempre più spesso, fuori e dentro le mura di casa e che coinvolgono giovani e adulti, un linguaggio urlato e denigrante che sembra essere diventato prassi di comunicazione comune. “Siamo in una situazione geopolitica che induce a ripensare intere storie, tradizioni, visioni del mondo. Siamo ad una svolta d’epoca che potrebbe anche esprimersi in una catastrofe” sintetizza il filosofo Massimo Cacciari nella recente intervista pubblicata su Avvenire il 22 maggio 2024.

Nuove vie per una cultura della pace

Sembra isolata, come un urlo nel deserto, la voce di Papa Francesco che invoca, chiede incessantemente la pace. Eppure educare alla pace non è soltanto possibile: oggi è un dovere prioritario, anzi un imperativo categorico, proprio nell’accezione kantiana del termine, una scelta che riguarda tutti, credenti o meno.

Nel carisma salesiano, poi, la fede accende ed alimenta ancor più questa ricerca e costruzione di pace. Pace come profezia perché siamo figli e figlie di due santi fondatori profondamente radicati “a terra” ma temerari nell’osare un futuro impensabile nel loro presente e, allora quasi come oggi, non privo di gravi problemi sociali, tensioni, povertà, spinose questioni politiche. Pace come traguardo che passa sulla via dell’educazione perché il Sistema Preventivo ha in sé tutti i valori da declinare, al ritmo della nostra società in veloce cambiamento, per formare i “buoni cristiani e onesti cittadini” di oggi e di domani. Pace come “professione” di fede, una fede che non si adagia, che non si rassicura in vecchi “abiti mentali”, ma che è dinamica nel cogliere le sfide di tempi nuovi, una fede che vive del rapporto personale con Dio e si fa testimonianza.

La mia esperienza di donna, moglie, madre, docente e scrittrice sta diventando sempre più un richiamo continuo alla necessità di costruire una vera e propria cultura della pace.

Come si possono tessere la trama e l’ordito necessari a… generare pace?

Prendersi cura: maternità, paternità e generatività 

Il tema del “prendersi cura” è il cuore di ogni processo generativo ed è al centro della mia riflessione personale e del mio lavoro da tempo. Una cura che è legata, nella sensibilità femminile, all’esperienza della maternità a cui ho potuto dare una dimensione molto più ampia di quella esclusivamente “carnale”, andando ad esplorare l’infinito universo delle “maternità del cuore”. La donna che si prende cura, infatti, è madre, una presenza che concretizza possibilità di vita, rinascita, riscatto. 

Sono soprattutto le donne a saper intessere relazioni perché, oltre al prendersi cura, sanno anche quale importante valore ha il tempo: le donne, le madri conoscono l’attesa che fa germogliare frutti come quella che genera figli. Pazientemente si mettono al servizio della vita diventando così operatrici di pace. 

Ho incontrato, intervistato, raccontato religiose che vivono la maternità nella loro feconda castità, madri di molti e presenze incisive nel tessuto sociale e culturale attuale e poi donne che, madri o meno di figli loro, si adoperano con passione, ieri come oggi, per difendere la dignità dei più deboli, per favorire l’inclusione, per dare avvio a processi di riappacificazione, ricostruzione, crescita.

La “fecondità” di ciascuno di noi è strettamente legata al nostro coraggio di scommettere nella gratuità e, soprattutto, là dove la vita ci chiama a generare altra vita: nelle nostre famiglie, nei posti di lavoro, nelle nostre parrocchie, tra i nostri amici, nelle realtà politico-sociali-culturali delle nostre città. Lì scegliere di agire, custodire, accompagnare.

“Compiere il proprio dovere quotidiano è accettare di rimanere dove si è, perché il regno di Dio giunga fino a noi e si estenda su questa terra che noi siamo. È accettare con un’obbedienza magnanima la materia di cui siamo fatti, la famiglia di cui siamo membri, la professione in cui lavoriamo, il popolo che è il nostro, il continente che ci circonda, il mondo che ci serra, il tempo in cui viviamo” (Madelein Delbrel). Un’accettazione che non è mai passiva ma opera dall’interno come il lievito evangelico e, soprattutto, è calata in contesti reali.

Proprio la realtà, che non è mai solo femminile, impone la riflessione anche sulla figura maschile e sulla paternità. In questo tempo, in cui si fa spesso riferimento all’assenza dei padri, ci sono tanti testimoni silenziosi di generatività declinata al maschile. Religiosi che si dedicano all’educazione dei ragazzi nei contesti più difficili. Ho potuto conoscere da vicino i cappellani di due carceri minorili, don Claudio Burgio che, al Beccaria di Milano, usa, tra tanti “strumenti”, la musica per avviare i percorsi di crescita e riabilitazione dei suoi ragazzi e don Domenico Ricca, salesiano recentemente scomparso, per decenni cappellano al Ferrante Aporti di Torino, la Generala di Don Bosco, capace di trasformare in seme di speranza anche i percorsi di risalita più dolorosi. Fra’ Beppe Giunti, volontario nel carcere di Alessandria, che segue le famiglie dei collaboratori di giustizia e ha scritto, con Marina Lomunno, il bel libro “E-mail ad una professoressa. Come la scuola può battere le mafie” a sottolineare quanto l’educazione giochi un ruolo fondamentale per costruire una cultura della pace e della giustizia. Ci sono poi le realtà delle Case Famiglia, numerose e diverse ma tutte baluardo ad arginare disagi e dipendenze. E molti altri padri, religiosi o laici, che scommettono sulla carta dell’inclusione, sulla tutela dei più fragili, sulla difesa dei diritti, la protezione dell’ambiente, la diffusione della cultura.

Gli incontri e la costruzione di relazioni

Non vogliamo vivere una cultura del declino che ci fa stare dentro i nostri recinti, non ci fa essere audaci e ci priva della speranza”1 perché, per costruire la pace, è necessario uscire dalle nostre certezze, dalla autoreferenzialità che, spesso, regna in noi e nei nostri ambienti, per diventare membra vive della “Chiesa in uscita”, quella della prossimità.

Per me gli incontri diventati poi relazioni, sono state e sono una ricchezza inestimabile, opportunità per formare e condividere una cultura della pace.

Con Suor Alessandra Smerilli ho parlato di un linguaggio della cura che ancora manca e che va insegnato attraverso l’educazione a partire dai più piccoli. Il prendersi cura, infatti, avviene in cerchie ristrette ma non abita ancora, a pieno titolo, la dimensione pubblica della nostra società. Passaggio necessario perché ha anche una ricaduta nel contesto economico e deve essere percepito come valore aggiunto e non carenza: più donne devono poter partecipare al pensiero e al discernimento della chiesa e della società.

Anche l’incontro e la conoscenza della vita claustrale mi ha aperto orizzonti inaspettati durante un soggiorno al monastero di Madre Elena Francesca Beccaria a Roma.

Ho presentato uno dei miei libri con il pubblico davanti all’altare della chiesa e a tutta la comunità delle consorelle presente, dietro di noi, oltre la grata. Monache clarisse che hanno scelto di mantenere il segno tangibile della “grata” per testimoniare l’offerta della loro vita in controtendenza con il mondo: il silenzio rispetto all’ipercomunicazione, la pazienza come alternativa alla velocità, l’interiorità contro l’importanza che viene data all’esteriorità, la grazia dell’essere rispetto all’efficienza del fare. Maternità che si esprime nel prendersi cura dei fratelli e delle sorelle che chiedono aiuto e preghiera: solo riconoscendoci, infatti, come fratelli e sorelle, bisognosi gli uni degli altri, si sperimenta la solidarietà e si costruisce la pace. 

Madre Emmanuel Corradini, Abbadessa benedettina del Monastero di San Raimondo a Piacenza, mi ha permesso di aggiungere altri pezzi importanti al “puzzle” in costruzione. La consapevolezza, ad esempio, che la pace si costruisce con un costante allenamento a “fare spazio” invece che “a farsi spazio”: l’accoglienza come quella del grembo materno. E Madre Emmanuel, medico infettivologo con i malati di AIDS all’inizio degli anni ’90, prima di decidere di entrare in convento, mi ha aperto la strada per esplorare altre realtà come quella della scienza.

Con la Dottoressa Graziella Borgo, medico e vicedirettore scientifico della Fondazione Fibrosi Cistica Ricerca, e altri medici e ricercatori abbiamo approfondito l’importanza di impostare la cura della malattia, e anche l’accompagnamento alla morte, mettendo al centro la dignità della persona umana: passo fondamentale per educare alla pace perché il rispetto per ogni creatura e per il creato impedisce ogni atto, ogni scelta di distruzione e di morte.

Suor Gabriella Bottani e Suor Eugenia Bonetti sono, invece, due donne instancabili che si spendono per la difesa della dignità di altre donne. 

Suor Gabriella attraverso l’esperienza di Talitha Kum2, rete internazionale della vita consacrata contro la tratta di persone. Un’esperienza che promuove la crescita delle potenzialità e dei punti di forza della vita consacrata in un’azione integrata e scommette sulla capacità delle donne, in particolare, di creare relazioni, camminare insieme, costruire realtà nuove partendo dall’empowerment femminile. Costruire la pace spezzando le catene dello sfruttamento che coinvolge, oggi nel mondo, un numero impressionante di persone.

Cifre e dati che conosce bene anche Suor Eugenia, religiosa della Consolata, prima missionaria in Kenya e poi scopertasi in terra di missione in Italia, che ha dato vita, nel 2012, a “Slaves no more”3, associazione contro la violenza sulle donne e il traffico di esseri umani specialmente quello sessuale. Il lato oscuro della globalizzazione, quello che va portato alla luce perché non c’è pace davanti all’indifferenza complice. “Ho visto anche quella parte di società benpensante che si volta dall’altra parte per non vedere quanta sofferenza e disagio provochino i nostri stili di vita”4.

Conoscere e combattere la violenza

Oggi purtroppo viviamo… a contatto con la violenza in una dinamica quasi paradossale che si muove tra consapevolezza e indifferenza, dimensione reale e virtuale. L’esperienza di docente, purtroppo, è molto significativa perché mette, sempre più spesso, a confronto con fenomeni quali i maltrattamenti in famiglia, il bullismo, il cyberbullismo, l’hate speech. 

Forse si conosce ancora troppo poco il prezioso lavoro svolto dai Centri Antiviolenza che sostengono soprattutto donne (e i loro figli) consentendo loro di sottrarsi ai maltrattamenti del marito/compagno. Si parla spesso di femminicidi, nel nostro paese, perché le morti delle donne vittime della violenza di genere balzano spesso alle cronache, ma pochi sanno che questi casi rappresentano solo la percentuale minima di un fenomeno che è, per la sua gran parte, ancora sommerso: la violenza verbale, psicologica, economica che si consumano, molto prima e più a lungo, di quella sessuale e fisica, a cui si unisce anche la violenza assistita da parte dei più piccoli. L’arma vincente, su cui tutti gli operatori convergono e creano sinergie, è l’educazione e perciò la prevenzione. Educazione al rispetto, all’uso di un linguaggio corretto e liberato dagli stereotipi di genere, educazione ad una sana gestione delle emozioni, a comprendere, fin dall’infanzia, che l’amore non è “possesso” ma “dono”, che il luogo privilegiato della crescita è la libertà gestita con responsabilità e non l’imposizione/sottomissione. Anche queste, tutte vie per costruire una cultura della pace iniziando dall’uso delle parole e dai comportamenti di bambini e bambine.

E si è affrontato, solo di recente, il fenomeno degli abusi di potere e degli episodi di violenza all’interno delle congregazioni religiose, specialmente quelle femminili. Una realtà a cui mi sono avvicinata grazie al giornalista vaticanista Salvatore Cernuzio che ha cercato di far cadere il velo di silenzio su un fenomeno che provoca sofferenze, lacerazioni, fallimenti dolorosi e per cui si stanno avviando percorsi di sostegno e accompagnamento.5

Dalle violenze più o meno nascoste alla guerra vera e propria, mi ha condotto l’incontro con il vescovo del Sud Sudan, padre Christian Carlassare. Operatore di pace in un paese dilaniato dalla guerra civile e dagli scontri interni, ferito gravemente non appena nominato vescovo della diocesi di Rumbek e rientrato in Africa subito dopo la guarigione. È il vescovo più giovane del mondo a delineare vie concrete per costruire una cultura di pace: scolarizzazione, promozione di attività economiche, coinvolgimento delle donne perché si raggiunga l’emancipazione femminile, sostegno sanitario, dialogo: “È necessario che la pace arrivi alla popolazione attraverso il disarmo, attraverso programmi di incontro, di ascolto delle comunità, di fiducia reciproca nello stabilizzare anche la sicurezza e nell’aiutare la ripresa economica”6

Stesse vie indicate anche da Suor Ruth Del Pilar Mora, FMA, Consigliera generale per le Missioni, sul “campo” prima in Colombia e poi in Africa dove la sua missione ha “incrociato”, per un periodo, quella del vescovo Christian, non solo fisicamente ma soprattutto nello stile operativo: capacità di ascolto, integrazione, educazione con particolare attenzione alle ragazze. Entrambi, però, sottolineano l’importanza delle relazioni nella costruzione della pace. “La nostra missione non ha né luoghi, né tempi, né schemi. La vita passa attraverso di te, è una parte di te che viene donata. Si genera sempre nella relazione con l’altro”.

Relazioni e perdono come antidoto contro la violenza, come strategia per prevenire ogni forma di violenza.

Il Magnificat

La cultura della pace è già delineata nel canto del Magnificat. La lode sbocciata dall’incontro di due donne e dai frutti del loro grembo. Due donne differenti, la giovane che parte per raggiungere ed aiutare la più anziana, due maternità apparentemente impossibili, la gioia dell’incontro e la celebrazione di tutto ciò che è in controtendenza con le logiche mondane. In quel canto è racchiusa la certezza che un mondo nuovo, diverso è possibile, che il Regno di Dio è già operante nella storia quando all’arroganza e alla superbia si risponde con instancabile umiltà, quando si sostengono le povertà e le fragilità contro le ricchezze e la potenza, quando, sull’odio, prevalgono giustizia e misericordia. Quando scegliamo di imboccare, senza guardarci indietro, la via della pace con la stessa serena determinazione con cui Maria è partita mettendosi in viaggio, attraverso le montagne, per far visita alla cugina Elisabetta.

  1. Cardinal Matteo Zuppi, Introduzione ai lavori della 79° Assemblea Cei, Avvenire, 22 maggio 2024 ↩︎
  2. www.talithakum.info/it ↩︎
  3. www.slavesnomore.it/226-2/ ↩︎
  4. Federica Storace, Sei un essere speciale, Erga edizioni 2022 ↩︎
  5. Federica Storace, Madri per sempre. Racconti polisensoriali di donne che curano, Erga edizioni, 2023 ↩︎
  6. Idem ↩︎

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