Oltre l’idea della guerra come normale strategia per superare i conflitti
L’aspirazione alla pace che tutti si portano dentro e che oggi è avvertita come un’urgenza impellente, sembra essere spiazzata da una cultura e una mentalità, peraltro molto diffusa, che vede la guerra come una ‘normale’ strategia per superare i conflitti. L’idea che la guerra si possa considerare una via per la pace (guerra di pace) è chiaramente fuorviante per lo stravolgimento del senso delle parole. La pace non si raggiunge facendo la guerra!
Siamo dinanzi a un problema che è prima di tutto antropologico, perchè si tratta di cambiare la civiltà, per passare da una civiltà basata sulla cultura della guerra a una civiltà basata sulla cultura della pace. Sarà la civiltà dell’amore che spingerà l’umanità a prendere la via della vita e non della morte. Si ha la sensazione, invece, che la guerra sia percepita come l’unico modo per sciogliere tensioni e controversie tra persone, gruppi o popoli. La guerra come strumento di soluzione dei conflitti? È assurdo… non si può giocare con i fiammiferi!
Se la guerra è ‘normale’ allora la pace diventa impossibile, così come ogni tentativo di ricostruzione o di riconciliazione! E se non fosse così?
Resta la domanda di fondo che abita nel cuore di tutti, sebbene a livello politico e soprattutto mediatico si continui a parlare di pace con dichiarazioni pubbliche che rischiano di essere ‘parole vuote’, pii desideri e utopistiche aspettative che non trovano il supporto di azioni concrete e operative. La pace è ancora possibile nella complessa situazione del momento presente? Il dubbio nasce dalla comprensibile situazione di stanchezza di una guerra, anzi di molteplici guerre ‘dimenticate’ che sembrano non aver fine. Eppure la pace tanto evocata, mentre sembra sfuggirci di mano, è certamente “in gestazione”.
Ci vuole speranza per crederci, ma anche la lucida consapevolezza che essa si prepara là dove ci siano persone o gruppi che lavorano per la rigenerazione delle relazioni, personali e sociali, per l’umanizzazione della società a partire dalla politica e dalle interazioni a livello internazionale. Difatti, la speranza, tema centrale del Giubileo 2025, ha come primo obiettivo la pace, che non è ‘utopia’ e neppure semplice aspirazione che nasce dalla tragicità di eventi vissuti o temuti. La pace alimentata dalla speranza comporta innanzitutto la consapevolezza dei pericoli e dei rischi, ma anche la volontà determinata di essere “costruttori” di pace, non solo “amanti” della pace.
Per costruire la pace, non solo idealisticamente, occorre “preparare la pace” attraverso un lungo percorso di formazione che consenta l’interiorizzazione di valori e atteggiamenti mediante esperienze di educazione alla nonviolenza da realizzare precocemente in famiglia, a scuola, nei diversi gruppi di appartenenza. Si tratta di dare un’impostazione empatica, nonviolenta e creativa ai percorsi e agli interventi educativi per attivare processi di pace, come un’attitudine preventiva.
È tempo di puntare sull’educazione e sul suo potere trasformante, è tempo di costruire comunità di fraternità e di solidarietà in cui non solo vengano banditi pregiudizi, indifferenza, ostilità e sopraffazione, ma siano capaci di scatenare il coinvolgimento e la partecipazione responsabile di tutti. Superare le logiche di contrapposizione per essere testimoni di pace nel servizio della fraternità è richiesto soprattutto a quanti hanno responsabilità in campo educativo o che sono chiamati a essere animatori o leader delle comunità.
Prima di intervenire è meglio comprendere
Da dove partire in questa difficile e necessaria educazione alla pace? E con quali percorsi formativi? Prima di decidere come intervenire credo che sia prioritario comprendere in profondità la situazione, nello specifico le situazioni conflittuali, nelle loro origini e cause, nei risvolti di violenza e sofferenza nelle persone e in tutte le parti coinvolte, la società e i popoli, il mondo intero. Per superare la conflittualità e trasformare i conflitti si richiede infatti la trasformazione della situazione che abbraccia bisogni, interessi e problemi talvolta apparentemente inconciliabili.
Oggi esistono le condizioni per passare dal ‘contro’ – che facilmente conduce allo ‘scontro’ – al ‘per’, cioè alla scelta di confrontarsi con e di operare per ricostruire attraverso il dialogo e l’incontro quello spazio di valori e di beni relazionali comuni che sono presenti in ogni persona o gruppo o popolo come ‘anelito’ profondo alla pace e all’armonia.
Avviare processi di incontro, specie quando le relazioni sono rimaste ferite dalla violenza o dall’odio, è una sfida estremamente difficile. Non esiste una facile roadmap per la riconciliazione e per la pace. Infatti, ricreare la fiducia e la reciproca comprensione comporta un lungo processo di maturazione che prevede in primo luogo il riconoscimento dell’altro, la cura delle ferite, la comprensione e l’accettazione del passato doloroso, la volontà di superarlo insieme. L’educazione allora diventa irrinunciabile, perché strumento di ricostruzione delle relazioni e di rigenerazione della persona mediante piccoli e talvolta impercettibili cambiamenti, generati dai processi lentamente messi in atto dal diffondersi di idee, prospettive, pensieri e progetti che orientano la condotta e trasformano perfino i conflitti in una via strategica per l’incontro.
Ma quale educazione? Non si tratta di un educare nel senso del mettere dentro ma del tirare fuori, facendo emergere potenzialità e risorse interiori. Ciò implica una serie di percorsi capaci di creare nella persona, e quindi nella società, una solidità interiore attorno ad alcuni valori essenziali e costitutivi della natura umana, come il rispetto della dignità dell’altro e delle differenze, la consapevolezza della libertà e della responsabilità, la fiducia nelle sue potenzialità e risorse, il coraggio di scommettere sulla capacità delle nuove generazioni di saper far fronte alle difficoltà e avversità della vita, come pure di saper godere dei piaceri della vita, la voglia di correre rischi e pericoli, accettandoli con pazienza e imparando a superarli.
Educare a vivere il conflitto come incontro e confronto tra le diversità
Il conflitto è una realtà endemica presente in tutti i popoli e gruppi qualunque sia la cultura a cui appartengono. È la complessità in sé stessa che può generare il conflitto e qualunque forma di contrapposizione: la molteplicità delle culture e dei paradigmi mentali, delle diversificate visioni del mondo e della vita, insieme all’eccesso dei flussi comunicativi, tendono a creare una densità di differenze che insieme alle pressioni della storia, alle consolidate tradizioni e mentalità delle persone e dei gruppi esigono una continua e stressante necessità di confronto. Ma non sempre il confronto produce esiti positivi, anzi talvolta genera esiti antagonisti, contrapposti e distruttivi.
Il conflitto va preso in considerazione come una dimensione quasi naturale, come normale conseguenza di una società così planetaria e complessa che deve far fronte alla crisi e alla pervasività della presenza dell’altro, o meglio dell’alterità e, quindi, della diversità. Il conflitto allora diventa possibilità di incontro e confronto tra diversi punti di vista, un modo per non considerare ‘nemico’ chiunque la pensi diversamente da noi o che non si identifichi con noi.
In contesti complessi, plurali e fluidi, il conflitto va rivalutato come un’opportunità per apprendere una buona gestione della conflittualità inerente alla realtà. In un’ottica pedagogica, la diversità che caratterizza tutte le relazioni interpersonali può far scaturire il conflitto, mentre è nel conflitto (e attraverso di esso) che è possibile incontrare l’altro nella sua diversità. Tuttavia, la conflittualità se non è ben gestita può sfociare in violenza o atti di guerra o semplicemente generare un clima relazionale comunitario che rischia di limitare o distruggere la fraternità, specie nelle comunità internazionali e multiculturali.
«Bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto lui stesso
che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono
solo conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima,
e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore
per potersi così rivolgere ai suoi simili da un uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove.
Quando l’uomo ha trovato la pace in se stesso, può mettersi a cercarla nel mondo intero».
Martin Buber
Nell’educare alla gestione della conflittualità, non si può dimenticare che il conflitto è prima di tutto dentro di noi. I cattivi rapporti con gli altri, infatti, sono il riflesso di un cattivo rapporto con noi stessi. Nell’educazione alla pace un ruolo di preminenza è giocato dalla responsabilità morale, cioè da quei percorsi formativi che formano alla consapevolezza della parzialità del proprio punto di vista; al riconoscere che l’autonomia individuale non è disgiungibile dall’interdipendenza con gli altri; che poggia sull’impegno etico della persona piuttosto che su un sistema di regole vincolanti le quali intendono garantire la valutazione delle scelte. E infine consiste in un educarsi al dialogo che non miri all’unanimità ma alla comprensione reciproca; non alla tolleranza ma alla solidarietà; non all’identità ma alla reciprocità della differenza.
In questa prospettiva, il conflitto può divenire uno strumento e una via per la pace, perché in grado di trasformare la relazione umana. Essa, infatti, oltre a congiungere le persone fra loro, tesse tutta una serie di sentimenti, emozioni, differenze e valori che connotano la personalità di ogni soggetto. Questo intreccio di esistenze può determinare l’innescarsi di contrasti che, se non gestiti in modo adeguato, possono generare veri e propri conflitti intrapersonali, interpersonali e sociali. In tal senso, l’incontro con la diversità diventa una reale sfida emotiva e cognitiva che richiede un’adeguata formazione a continui incontri e confronti con punti di vista, idee, opinioni e modi di concepire la vita diversi.