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Stile materno di ecologia spirituale

Fare ecologia di una certa spiritualità ‘indietrista’ come dice Papa Francesco, comporta uno stile di vita meno modellato su giudizi, pregiudizi, prediche, sottolineature di relazioni gerarchiche misurate sulla cultura, sullo status civile e religioso. Ancora troppo spesso il rapporto dei cristiani tra loro e con quanti considerati ‘lontani’ straripa di giudizi moralistici, se non fondamentalisti, che dividono gli esseri umani in buoni e cattivi, dogmatizzano le verità, imbalsamano la tradizione, appoggiandosi ad ideologie che poco hanno a che fare col cuore del cristianesimo.

Fare ecologia spirituale non è forse avvicinarsi all’attitudine materna di Maria? Pensando a lei si viene sollecitati a guardare l’altro con gli occhi di un Dio che l’ha creato e perciò amato, ad accostarsi in punta di piedi, disponendosi all’ascolto attento, il più delle volte silenzioso, nella consapevolezza di essere tutti limitati e peccatori, tutti, più o meno consapevolmente alla ricerca di ciò che è buono e bello e vero.

L’attenzione svela dimensioni nascoste dal teatro della vita: ogni prossimo, a ben guardare, porta in sé segni di ferite subite anche se non inferte intenzionalmente. Oggi, nel nostro mondo occidentale appaiono frequentemente quelle provocate dalla solitudine, dal non amore, dalla depressione. Tutti abbiamo conoscenti che mandano segnali di umore mortifero e si rivelano tendenzialmente depresse, anche senza arrivare a livelli depressivi cronici. Le notizie della guerra, della proliferazione della violenza, della pandemia non aiutano. Secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) le depressioni sono la patologia più diffusa dopo quelle cardiologiche e aumenteranno notevolmente nei prossimi anni.

L’attitudine materna dovrebbe distinguere i cristiani sollecitandoli a raccogliere il lamento silenzioso del prossimo e sintonizzare con la sua sofferenza, anche se nascosta dietro le risate, le chiacchiere, la spavalderia. Un buon samaritano non è tanto colui che spende i suoi soldi facendo la carità allo sventurato incontrato ai bordi della strada, ma soprattutto quello che condivide nell’anima la sofferenza altrui, sa con-patire. Quanti si limitano a proporre soluzioni, consigli su come gestire le situazioni o addirittura risalgono agli errori e alle colpe che hanno generato quelle situazioni risultano inopportuni e stucchevoli.

La sofferenza, quella di cui Giobbe è il prototipo, profeta del Cristo, è un mistero insondabile. L’attitudine mariana ci pare suggerisca di condividere il ‘perché’ di quel mistero, rivolgendosi a Dio stesso e attendendo silenziosamente fino a che forse spunterà una qualche interiore risposta o almeno una consolazione che conferma la presenza silenziosa dello Spirito che fa piovere sui ‘sui buoni e sui cattivi’. Accompagnare il vissuto nelle fatiche giornaliere dei nostri prossimi è un’opera materna di ecologia spirituale, che ripulisce l’anima e amplifica la voce di Dio. Nulla di nuovo rispetto al comando evangelico di mettere l’amore al primo posto, lasciando a Dio, che conosce i modi e i tempi, di farsi presente Egli stesso nelle anime. Del resto, il sapere dalle scienze alla teologia, come ha ribadito Giovanni Paolo II riprendendo S. Tommaso e S. G.E. Newman, non può sovrastare il primato inviolabile della coscienza, in quanto «santuario in cui ciascuno è solo con Dio e può ascoltare in profondità l’eco della Sua voce»1[1] .

Vi sono nella Chiesa abbastanza luoghi di comunione che sappiano coniugare condivisione e confronto franco, non pregiudizialmente critico o apologetico? C’è la fiducia di poter confidare le ferite, come pure di poter denunciare eventualmente tradizioni ingiuste, senza timori di ritorsioni? Con-passione, schiettezza e accettazione delle critiche s’incontrano raramente, eppure sono una premessa indispensabile di ecologia della comunicazione per una vera comunità cristiana.

Chiara Lubich, che ha promosso lo stile di vita mariano, ha sottolineato quanto la Chiesa guadagnerebbe se tutti, a cominciare dai sacerdoti, adottassero uno stile mariano: «Essa apparirà agli occhi di tutti più bella, più santa, più dinamica, più familiare. Sarà una Chiesa amante, accogliente, meglio orientata alle sue nuove frontiere: quelle dell’ecumenismo, del dialogo interreligioso e con chi non crede; con continue novità, con nuove vocazioni, una Chiesa carismatica»2[2]. Niente di nuovo, se si pensa a ciò che Gesù ha preteso da Pietro come prodromico a quanto sta per affidargli («Pasci le mie pecore»): «Tu mi ami? Tu mi ami? Tu mi ami più di costoro?» (Gv 21, 15-17), domande tese a ribadire che solo l’amore è essenziale. Inevitabile il parallelo con la lode di Gesù alla Maddalena, a cui non domanda se lo ama, perché ciò è palese: «sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (Lc 7, 47). Essere capaci di amare, è la condizione per potersi prendere cura dei fratelli, solo metaforicamente indicati come “pecore” (ma con disambiguazione rispetto all’accezione dantesca nel canto III del Purgatorio: «…e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, addossandosi a lei, s’ella s’arresta, semplici e quete, e lo ‘mperchè non sanno»).

Papa Francesco di recente ribadisce frequentemente il fastidio del chiacchiericcio che spegne la voce di un Dio che sussurra nel silenzio. Se pensiamo al moltiplicarsi di messaggi, slogan, etichette, all’eccesso di spettacoli e pubblicità, silenzio e distanziamento appaiono preziose occasioni per restituire spessore alle relazioni e al discernimento del senso della propria esistenza e di quella altrui. Ciò vale anche per la fede: non occorre gridare per farsi sentire, moltiplicare le parole, ripetere ossessivamente il Suo Nome; basta che il silenzio di Dio s’incontri il nostro in una preghiera muta (Mt 6, 6-8; Sof 1, 7).

Il silenzio interrompe il mito della comunicazione continuativa, come se fosse indispensabile riempire forzosamente ogni minuto dicendosi sempre tutto e subito. Per generare una comunità fraterna non basta mettere in atto strategie psico-sociali, potenziare la comunicazione e le dinamiche di gruppo, chiarire sempre e comunque le incomprensioni, se manca quell’amore reciproco che garantisce la Sua presenza. Occorre imparare a fare a meno della parola per poterla usare meglio, trattenerla quando potrebbe essere offensiva a causa di interventi impulsivi, ingannevoli e malevoli. Come dimostra il Magnificat, arriva il momento opportuno per parlare: Maria parla quando con Elisabetta si creano le condizioni di un vero ascolto. Dio non è né nella parola né nel silenzio; è presente in entrambi, se dettati dall’amore.

Per una ecologia delle comunità ci pare che l’assunzione di un profilo più mariano di approccio nelle relazioni interpersonali sia indispensabile a disporre ciascuno a valorizzare l’altro e condividerne il vissuto, attenuando le barriere tra differenze ideologiche culturali e politiche, tra buoni e cattivi, tra vocazioni, tra generi, il che è indispensabile per sentirsi ‘uno’ nel Cristo.  

  1. Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, 209 ↩︎
  2. C. Lubich, I Movimenti ecclesiali e il profilo mariano della Chiesa, «Nuova Umanità» 28/2 (2006). ↩︎

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