I giovani vivono la socializzazione in più momenti della loro vita, ad esempio in famiglia, a scuola, all’università, nella politica, nella religione, nel mondo digitale attraverso i social network, nelle relazioni fra pari, è anche nel mondo della musica.
La socializzazione emotiva
La musica da sempre è sinonimo di emozione. Tutti noi riviviamo alcuni momenti particolari della nostra vita, positivi o negativi, riascoltando una determinata canzone. Ma la medesima canzone ha il potere di riprodurre sentimenti diversi nelle persone; quindi perché accade tutto ciò?
Il sociologo Steven Gordon chiama questo aspetto della nostra esistenza: cultura emozionale. Questa non si manifesta solo nel linguaggio, ma in ogni componente sociale, dai rituali quotidiani alle espressioni artistiche, dalle pubblicazioni scientifiche ai testi religiosi ed è costituita da un proprio lessico, da credenze specifiche e da regole peculiari. Infatti, in ogni società esistono parole diverse, gesti diversi, linguaggi del corpo diversi per esprimere le stesse emozioni.
La cultura emozionale di una società non è innata, è un processo, condizionato sia da agenti esterni che da fattori interni alla persona. La cultura emozionale si apprende da piccoli e si sviluppa con la crescita.
Lo scrittore Alessandro D’Avenia, infatti, sostiene che: «A volte nella musica si trovano le risposte che cerchi, quasi senza cercarle. E anche se non le trovi, almeno trovi quegli stessi sentimenti che stai provando. Qualcun altro li ha provati. Non ti senti solo».
Il valore socializzante dei grandi eventi: i concerti
Nel XX secolo nascono quelli che oggi chiamiamo concerti, cioè grandi esibizioni dal vivo con un numeroso pubblico presente, grazie al pop e al rock che portano la musica fuori dai luoghi prestabiliti convenzionalmente per le esibizioni come le chiese, i teatri, le sale da camera, i club. I concerti godono da subito di un ampio consenso perché permettono ai giovani una forma nuova di aggregazione che riesce ad unirli sotto il segno della passione per un cantante o una band.
«Un concerto funziona quando i musicisti e il pubblico raggiungono una sorta di esperienza unificante. È commovente e appagante sapere che i confini che separano una persona dall’altra si annullano nell’arco di un’ora» diceva Jim Morrison, frontman dei Doors e uno dei massimi simboli dell’inquietudine giovanile.
Chi non ricorda già negli anni ’70 le folle oceaniche di giovani ai concerti dei Beatles, di Elvis Presley, di Elton John: «Durante un concerto, devo conquistare il pubblico, altrimenti non sono soddisfatto» affermava Freddie Mercury, leader e cantante dei Queen.
Nei concerti la semplice canzone ascoltata a casa assume una dimensione diversa: diventa maestosa, popolare, condivisa.
La folla che partecipa ai concerti diventa protagonista dello show perché può cantare, può saltare, può ballare. Rod Stewart a Rio de Janeiro nel 1994 si è esibito di fronte a 3 milioni e mezzo di persone; Jean-Michelle Jarre a Parigi nel 1990 ha suonato con 2 milioni e mezzo di persone di fronte a sé; i Rolling Stones nel 2006 con 1 milione e mezzo di persone a Rio; i Pink Floyd nella laguna di Venezia hanno accolto 200mila spettatori paganti per uno dei concerti più grandi e più belli della storia della musica.
Ne solo esempio quei cantanti che da 30/40 anni sono sulla scena musicale dove al medesimo concerti sono presenti generazioni diverse, basti pensare a Madonna, agli U2, a Bob Dylan o a Paul McCartney.
«I miei concerti iniziano il giorno prima e non finiscono nemmeno il giorno dopo» sentenzia Vasco Rossi, mettendo in evidenza che sono eventi totalizzanti nella vita di chi vi partecipa.
La musica da sempre è sinonimo di emozione. Tutti noi riviviamo alcuni momenti particolari della nostra vita, positivi o negativi, riascoltando una determinata canzone. Ma la medesima canzone ha il potere di riprodurre sentimenti diversi nelle persone; quindi perché accade tutto ciò?
Il sociologo Steven Gordon chiama questo aspetto della nostra esistenza: cultura emozionale. Questa non si manifesta solo nel linguaggio, ma in ogni componente sociale, dai rituali quotidiani alle espressioni artistiche, dalle pubblicazioni scientifiche ai testi religiosi ed è costituita da un proprio lessico, da credenze specifiche e da regole peculiari. Infatti, in ogni società esistono parole diverse, gesti diversi, linguaggi del corpo diversi per esprimere le stesse emozioni.
La cultura emozionale di una società non è innata, è un processo, condizionato sia da agenti esterni che da fattori interni alla persona. La cultura emozionale si apprende da piccoli e si sviluppa con la crescita.
Lo scrittore Alessandro D’Avenia, infatti, sostiene che: «A volte nella musica si trovano le risposte che cerchi, quasi senza cercarle. E anche se non le trovi, almeno trovi quegli stessi sentimenti che stai provando. Qualcun altro li ha provati. Non ti senti solo».
Il valore socializzante dei grandi eventi: i concerti
Nel XX secolo nascono quelli che oggi chiamiamo concerti, cioè grandi esibizioni dal vivo con un numeroso pubblico presente, grazie al pop e al rock che portano la musica fuori dai luoghi prestabiliti convenzionalmente per le esibizioni come le chiese, i teatri, le sale da camera, i club. I concerti godono da subito di un ampio consenso perché permettono ai giovani una forma nuova di aggregazione che riesce ad unirli sotto il segno della passione per un cantante o una band.
«Un concerto funziona quando i musicisti e il pubblico raggiungono una sorta di esperienza unificante. È commovente e appagante sapere che i confini che separano una persona dall’altra si annullano nell’arco di un’ora» diceva Jim Morrison, frontman dei Doors e uno dei massimi simboli dell’inquietudine giovanile.
Chi non ricorda già negli anni ’70 le folle oceaniche di giovani ai concerti dei Beatles, di Elvis Presley, di Elton John: «Durante un concerto, devo conquistare il pubblico, altrimenti non sono soddisfatto» affermava Freddie Mercury, leader e cantante dei Queen.
Nei concerti la semplice canzone ascoltata a casa assume una dimensione diversa: diventa maestosa, popolare, condivisa.
La folla che partecipa ai concerti diventa protagonista dello show perché può cantare, può saltare, può ballare. Rod Stewart a Rio de Janeiro nel 1994 si è esibito di fronte a 3 milioni e mezzo di persone; Jean-Michelle Jarre a Parigi nel 1990 ha suonato con 2 milioni e mezzo di persone di fronte a sé; i Rolling Stones nel 2006 con 1 milione e mezzo di persone a Rio; i Pink Floyd nella laguna di Venezia hanno accolto 200mila spettatori paganti per uno dei concerti più grandi e più belli della storia della musica.
Ne solo esempio quei cantanti che da 30/40 anni sono sulla scena musicale dove al medesimo concerti sono presenti generazioni diverse, basti pensare a Madonna, agli U2, a Bob Dylan o a Paul McCartney.
«I miei concerti iniziano il giorno prima e non finiscono nemmeno il giorno dopo» sentenzia Vasco Rossi, mettendo in evidenza che sono eventi totalizzanti nella vita di chi vi partecipa.
Il valore socializzante della GMG
Anche la Chiesa e i Papi hanno compreso che le forme aggregative, al di fuori dei luoghi tradizionali, hanno un valore emozionale molto forte e rimangono impresse nella memoria dei partecipanti: le Giornate Mondiali della Gioventù ne sono la più grande espressione. Nate nel 1986 per volere di Papa Giovanni Paolo II, le GMG sono già arrivate alla trentaquattresima edizione che si è svolta a Panama nel gennaio del 2019. Non a caso questi incontri hanno una frase biblica di riferimento, ma soprattutto una canzone inedita per ogni edizione.
Chi non ricorda nel 1986 a Roma Resta qui con noi, Un nuevo sol a Buenos Aires nel 1987, Emmanuel nel Giubileo del 2000 a Roma. Queste canzone sono entrate nella vita dei giovani che hanno partecipato ed ad ogni ascolto, anche dopo tanti anni, vengono rivissute le stesse sensazioni e le stesse emozioni.
Marco Mamoli, autore di Emmanuel, dice che: «È nato quasi per gioco, proprio al termine di un incontro. Mi dissero: “Dai, metti in musica questa gioia che abbiamo sperimentato”. Una cosa veloce, intuitiva, buttata giù in pochi minuti! Il brano è poi rimasto in un cassetto per due anni, finché non è saltato fuori quel concorso per l’inno della Giornata mondiale della gioventù. Da quel momento sono vissuto per anni in uno stato come di stordimento… Potrei raccontare delle storie da non crederci. Milioni di persone che cantavano quell’inno. Genitori che lo facevano eseguire al battesimo del figlio, che avevano chiamato Emmanuel. Addirittura conversioni. Ma io non ho fatto niente».
Anche la Chiesa e i Papi hanno compreso che le forme aggregative, al di fuori dei luoghi tradizionali, hanno un valore emozionale molto forte e rimangono impresse nella memoria dei partecipanti: le Giornate Mondiali della Gioventù ne sono la più grande espressione. Nate nel 1986 per volere di Papa Giovanni Paolo II, le GMG sono già arrivate alla trentaquattresima edizione che si è svolta a Panama nel gennaio del 2019. Non a caso questi incontri hanno una frase biblica di riferimento, ma soprattutto una canzone inedita per ogni edizione.
Chi non ricorda nel 1986 a Roma Resta qui con noi, Un nuevo sol a Buenos Aires nel 1987, Emmanuel nel Giubileo del 2000 a Roma. Queste canzone sono entrate nella vita dei giovani che hanno partecipato ed ad ogni ascolto, anche dopo tanti anni, vengono rivissute le stesse sensazioni e le stesse emozioni.
Marco Mamoli, autore di Emmanuel, dice che: «È nato quasi per gioco, proprio al termine di un incontro. Mi dissero: “Dai, metti in musica questa gioia che abbiamo sperimentato”. Una cosa veloce, intuitiva, buttata giù in pochi minuti! Il brano è poi rimasto in un cassetto per due anni, finché non è saltato fuori quel concorso per l’inno della Giornata mondiale della gioventù. Da quel momento sono vissuto per anni in uno stato come di stordimento… Potrei raccontare delle storie da non crederci. Milioni di persone che cantavano quell’inno. Genitori che lo facevano eseguire al battesimo del figlio, che avevano chiamato Emmanuel. Addirittura conversioni. Ma io non ho fatto niente».
La musica ha la capacità di toccare le corde profonde della nostra intimità e di modificare la nostra identità: la musica è un linguaggio vero e proprio.
Il compositore e pianista francese Claude Debussy diceva: «Penso che la musica contenga una libertà, più di qualsiasi altra arte, non limitandosi solo alla riproduzione esatta della natura, ma ai legami misteriosi tra la natura e l’immaginazione».
Il compositore e pianista francese Claude Debussy diceva: «Penso che la musica contenga una libertà, più di qualsiasi altra arte, non limitandosi solo alla riproduzione esatta della natura, ma ai legami misteriosi tra la natura e l’immaginazione».
Mariano Diotto
m.diotto@iusve.it