Ascoltare i segni della pace possibile.
Oltre le bandiere e i proclami

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Quando si parla di guerra, ci si indigna gridando contro la crudeltà, specie su donne e bambini. In famiglia si cerca di evitare che i figli vedano immagini shock, che arrivano a fiotti nelle nostre case attraverso i mass media, benché le nuove generazioni siano ormai abituate a vivere la guerra come uno spettacolo sanguinoso, e finiscano col trovarlo dinamico e avvincente. I bravi genitori ascoltano e rilanciano le sollecitazioni del Papa, ma poco sanno dire – e soprattutto testimoniare – circa come conservare e gestire la pace nelle situazioni di ogni giorno e ancor meno in quelle che coinvolgono gli Stati. Fanno quel che possono per educare alla pace, ma forse non è il caso, specie con i più grandicelli, di indugiare su un pacifismo di bandiera, parolaio e in pantofole, pago del proprio focolare che si chiude agli estranei. Nelle relazioni quotidiane e tra gli Stati, ingiustizie, conflitti e violenze (verbali e di fatto) contraddicono e soffocano tale profonda e universale aspirazione alla pace.

I tempi sono maturi per chiedersi se il pacifismo ad ogni costo non finisca col lavarsi le mani, una forma di neutralismo codardo e di accettazione tacita della violenza. Cosa facciamo se veniamo offesi, picchiati, derubati, bombardati? Possiamo limitarci a difendere la nostra pace se assistiamo ad atti di palese ingiustizia tra due parti, di cui una è più fragile? Chi subisce un’aggressione, se non riesce a difendersi da solo, chiede aiuto e non si accontenta di vaghi richiami ai giusti principi. Se la necessità impone di proteggere i propri cari, i confini e gli interessi del popolo, una volta falliti gli sforzi diplomatici, si è condotti a impugnare le armi. Prima o poi veniamo messi di fronte alla vacuità delle proclamazioni generiche e ci capita di doverlo fare per legittima difesa, per solidarietà o per dovere, facendo ciò che in teoria non ammetteremmo mai.

Non si possono chiudere occhi e orecchie alla realtà, che impone di prendere atto che le guerre tornano a ondate. Se la nostra generazione forse riuscirà a passare indenne, non sarà così per figli, nipoti e pronipoti. Continuiamo pure ad ascoltare i richiami e costruire per quanto possibile la pace attorno a noi, ma sapendo che essa non è una conquista definitiva, un capitolo chiuso dopo la seconda guerra mondiale. La guerra esiste e basta, rispunta qua e là come l’ineliminabile della storia, è sorda alle prediche, si beffa dei sogni di pace a basso prezzo e dello sdegno dei pacifisti; diffida delle manifestazioni plateali, delle omelie degli idealisti e dei pacifisti, delle bandiere multicolore.
A tutti piace abitare un mondo pacificato. Non ho ancora incontrato qualcuno che dica di non volerlo e non sbandieri ai quattro venti la propria buona disposizione. Eppure lungo il corso della storia non sono pochi coloro che avrebbero voluto evitare la guerra e sono stati obbligati a farla. La pace la vuole Putin, se gli si concede Donbass, Crimea, ecc., verosimilmente la vuole l’Ucraina (se riesce a ricacciare i russi nei propri confini); la vogliono gli USA, se la Russia riconosce il suo potere e sta paga dei confini; la vuole Israele, se le si concedono i territori ambiti dai coloni, la vogliono i palestinesi, se si cancella Israele, la vogliono gli Houthi (branca minoritaria dell’Islam sciita) in funzione anti-USA e anti-Israele (soprattutto dopo l’invasione americana del 2003 in Iraq), la vuole l’Europa, a difesa dei propri principi e degli interessi commerciali. La realtà effettuale è diversa, anche quando la guerra viene celata dietro un lessico particolarmente adatto a creare confusione: “armate disarmate”, “guerra giusta”, “armate pacifiste”, “pacifismo armato”, “missioni di pace”, “ingerenza umanitaria”, “politica internazionale”, “guerra preventiva”, ‘operazione speciale’, “missione di pace”. Sono espressioni edulcorate che servono ad esorcizzare la guerra, a rimuoverla dalla coscienza della gente e trasfigurarla.
Sarebbe fuorviante e persino diseducativo indurre a credere che si possa vivere in una pace costante, in famiglia come nei più estesi rapporti sociali e politici. Si può eliminare la parola guerra dal vocabolario, ma non dalla vita, come non è possibile trasformare le bombe in pallottole di carta; si può rimandarla, governarla con regole più cogenti, ma come realizzare con le nostre forze un mondo in cui il lupo e l’agnello si abbracciano?

Eppure, anche se consapevoli che lo sviluppo si realizza passando attraverso e oltre i conflitti aperti o latenti, gli esseri umani non cesseranno di perseguire ostinatamente la pace. Auschwitz e la ferocia degli scontri Oriente-Occidente, destra sinistra, conservatori-progressisti, ci costringono ad ammetterne la fragilità e la instabilità. Mostrano che il male non è stato affatto sradicato dall’animo umano ed erutta violentemente e senza preavvisi. La storia non procede per via lineare verso orizzonti sempre più pacificati, come volevano gli evoluzionisti, fiduciosi nel progresso a 360 gradi.

Sarebbe il caso di rileggere Dandieu, quando diceva che i pacifisti sono i peggiori nemici della pace. Simone Weil, sindacalista pacifista fino al 1938, giudicava ogni guerra la tomba dei buoni ideali, ma nel suo viaggio in Germania (1932) si rese conto che i comunisti pacifisti erano tiepidi nei confronti del nazismo e li giudicò corresponsabili: avrebbero dovuto affrontare il toro per le corna usando la forza. «Dal giorno in cui – ha scritto – dopo una lunga lotta interiore, ho deciso in me stessa che, malgrado le mie inclinazioni pacifiste, il primo dei miei doveri diveniva ai miei occhi perseguire la distruzione di Hitler con o senza speranza di successo, da quel giorno non ho mai desistito; è stato il momento dell’entrata di Hitler a Praga… Forse ho assunto tale atteggiamento troppo tardi» (S. Weil, Scritti sulla guerra 2005).
La pace non è un diritto da rivendicare urlando slogan spesso violenti, cantando canzoni che invitano a mettere i fiori nei cannoni, sbandierando bandiere colorate, rifiutando i pacifismi a una dimensione, fomentando l’anti americanismo e l’anti capitalismo, come s’è fatto a lungo nel secondo dopoguerra, specie a partire dagli anni Sessanta e Settanta. I popoli che godono della loro pace ne parlano troppo, quelli schiacciati dalla brutalità del potere giungono ad augurarsi una guerra che in qualche modo rimuova le situazioni incancrenite. Sperano che le odiate bombe riusciranno a ribaltare le situazioni e rimuovere il male. Questo hanno desiderato, sino alla caduta del muro, non pochi intellettuali dell’Est, che hanno rimproverato all’Occidente il pacifismo satollo di chi difende i privilegi dei diritti conquistati e fa come lo struzzo, per non mettere a rischio la propria pace (‘quieta non movere’). Una pace stagnante è la palude egoista dei sazi sulla pelle degli affamati.


La visione realistica non esalta di certo la guerra – come si è fatto talvolta purtroppo – considerandola fonte di avventura, di rimescolamento delle classi, di rinnovamento della storia (allo scoppiare della prima guerra mondiale, ci sono cascati anche grandi nomi come Thomas Mann, benché poi se ne sia pentito amaramente). Si tratta semplicemente di non cullare operazioni opposte di funambolismo concettuale, di rimestamento magico di parole per edulcorare la realtà. In tutti gli ambiti, occorre prevenire, ascoltare le diverse prospettive, gestire diplomaticamente i conflitti in atto, rifiutare le letture semplificate e retoriche che riducono la guerra all’estremo maleficio dei cattivissimi, Hitler in testa. La pace è un compito gravoso da perseguire ostinatamente e costantemente.
A volte costa la vita.

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