Il film rompe le convenzioni con uno storytelling innovativo, dando voce ai migranti attraverso una prospettiva cruda e realistica. Attraversando il deserto del Sahara i due giovani cugini vedono con i loro occhi cosa significa la morte, senza mai poter dimenticare le storie dei compagni di viaggio che non ce l’hanno fatta, vittime di torture indescrivibili ed esperienze traumatiche. Ma sul loro percorso incontreranno anche gesti di umanità e gentilezza.
Garrone restituisce voce a chi non ne ha: i migranti. Fa dire a loro cosa vedono, provano e sperimentano in quelle settimane o mesi di inferno, nella speranza di toccare terra europea. Una scelta che non ha trovato un’opinione congiunta a livello di critica cinematografica, ma che ci fa riflettere, e molto. Seydou e Moussa vivono il viaggio come un’avventura da “capitani coraggiosi”. Garrone, regista e cosceneggiatore con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, restituisce con intelligenza e astuzia visioni opposte: ad esempio i due ragazzi vivono in un villaggio, protetti da donne forti e influenti; nella contro-narrazione di Garrone, quindi, non stanno scappando da fame e guerre, ma da un mondo che non li comprende e li costringe nella loro terra natia, fatta di certezze, poche, che bastano per sopravvivere. Ecco, loro non vogliono più sopravvivere, ma rompere quella precarietà e lanciarsi in nuove avventure.
Interessante la figura di Seydou, dall’animo gentile e maturo, che sente il peso della responsabilità di un cammino nel quale è difficile arrivare alla fine; lui ce la farà, ma non dimenticherà i volti di chi non è riuscito a sopravvivere. Più ingenuo e acerbo il comportamento di Moussa, che dovrà far i conti con una realtà difficile e talvolta crudele. I sogni sembrano vacillare spesso, il cuore si riempie di timori e di rimorsi, ma insieme riescono ad affrontare le onde del Mediterraneo e della vita. È un cammino che pone i due giovani davanti a loro stessi, alle scelte da compiere con la difficoltà di non avere una bussola di riferimento. Si trovano spesso a un bivio, sono a tratti grandi per poter partire, troppo giovani per accettare il reale e cedere ad esso. È un continuo passaggio di testimone tra realismo e visione, tratto caratteristico del cinema di Matteo Garrone. Una “firma” artistica che ritroviamo anche nel suo “Io Capitano”, una pellicola che va oltre il documentario in cui i racconti e le storie dei suoi personaggi si contaminano e ci portano a una meta irraggiungibile, per questo unica, in un continuo conflitto tra l’onirico e la sua distruzione.
Un cinema che trascina, quello di Garrone, che si reinventa e che scopre altri luoghi, altri orizzonti.
Un nuovo punto di vista per raccontare luoghi inesplorati, terre lontane e vicende personali, attraverso gli occhi grandi di chi non sa cosa lo aspetta oltre.
In “Io Capitano” anche la natura fa da protagonista, con le immagini mozzafiato di Paolo Carnera, direttore della fotografia, che ci mostra la natura incontaminata e rigogliosa, che si contrappone alle storie di morte e fatica degli uomini che la attraversano.
“Le terre, i mari e i cieli non hanno confini o frontiere: sono gli uomini che le hanno create e che li rendono paesaggi di sangue e disperazione”, ha commentato Garrone durante la Prima del film presentato all’ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia. È quello che fa “dire”, con un primo piano potentissimo sullo sguardo di Saydou, segnato dal viaggio: occhi grandi, neri e orgogliosi che guardano davanti a sé verso la “terra promessa”; pochi secondi che racchiudono tutta l’angoscia e la liberazione della storia del suo protagonista principale, un giovane ragazzo che toglie i panni del sognatore per indossare quelli dell’adulto.