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Ascoltare per essere costruttori di pace

Come tutte le buone disposizioni, è in famiglia che si apprende l’arte di ascoltare, perché si convive con persone di differenti condizioni di sesso, di età, di culture, di ruoli, il che inevitabilmente genera battibecchi e talvolta conflitti. Non c’è chi non ha assistito almeno una volta ai litigi tra mamma e papà e ha temuto che i legami si spezzassero irrimediabilmente. Sono innumerevoli nel mondo i bambini che si trascinano trami dovuti alla mancanza di pace in famiglia.

Da piccoli bisognerebbe apprendere dai genitori ad ascoltare l’altro attentamente, onestamente, anche se manifesta opinioni contrarie credendo alla sua buona fede e investendo fiduciosamente sulla possibilità di ricominciare dopo aver sbagliato, di riattivare un rapporto che sembra spezzato. Violenza, prepotenza, pregiudizi, rigidità nascono da chi si mostra incapace di mettersi nei panni dell’altro, non sopporta idee differenti, giudicate stupide e malevoli, vuole imporre le proprie. La guerra ripete ad ampio spettro e tra Stati il modulo dei conflitti familiari e interpersonali. 

La cultura contemporanea non aiuta. Il chiasso delle piazze rende l’ascolto frettoloso, disattento, superficiale. Si ha l’impressione che violenza e ignoranza pullulino grazie ad un contesto culturale e politico, fomentato dai mass media, che riduce tutto a slogan, alimentando la disinformazione e la fissazione ideologica. L’intreccio tra il diffuso malessere economico sociale e tale degrado della cultura di massa crea una situazione perversa per la quale chi cerca di sollecitare il cervello viene sommerso da chi muove la pancia. Non sono solo la crescita delle fake news ad influire sulla distorsione della democrazia, ma tutto il linguaggio, che s’immiserisce e deteriora, riflesso dell’incapacità di attenzionare l’altro. Sta di fatto che il Risk Report del World economic forum ha indicato come maggiore preoccupazione per i prossimi due anni la disinformazione, che minaccia la sicurezza globale.

In politica prevale chi cavalca le contraddizioni a proprio vantaggio. Le differenze vengono amplificate e contrapposte, inducendo le fasce più fragili della popolazione a schierarsi pregiudizialmente da una parte, assumere comportamenti di parte e sostituire il confronto con lo scontro aggressivo e spesso violento. L’io si sente forte se si schiera: o con la maggioranza, che difende sempre e comunque il proprio operato, minimizzando gli antecedenti e i contributi dell’opposizione, o con l’opposizione che, invece di fare proposte integrative e/o alternative, va alla ricerca cavillosa dei punti deboli di tutto ciò che fa la maggioranza, insulta e si scaglia contro. Volano accuse di incompetenza, di mancato senso dello Stato, di immobilismo. L’opinione pubblica dominante si stabilizza sulla polarizzazione degli schieramenti, il che non riguarda solo quelli che Giovannino Guareschi chiamava con l’epiteto offensivo ‘trinariciuti’, ossia ‘dalle tre narici’, con riferimento a quei comunisti che nel dopoguerra ‘aspiravano’ con la terza narice il dictat del giornale di partito. Troppi politici di professione guardano alle prossime elezioni trascurando i problemi concreti e più urgenti dei cittadini. 

Eppure sui quotidiani italiani si possono leggere editoriali sapidi di commentatori che ragionano con distacco e realismo, ma si sa che non è il meglio che arriva alla ribalta oltre al fatto che la buona stampa va perdendo presa sul grande pubblico. Non ci si può limitare ai rapporti faccia a faccia né alla lettura, data l’esplosione dei social i quali catturano una larga parte di cittadini ed elettori inclini ad assorbire più che a costruire. 

Per contrastare l’abitudine al facile dileggio degli avversari e favorire un sereno confronto sulle idee, che favorisca la capacità di discernimento e di ascolto, per avere adolescenti, futuri cittadini, capaci di autocontrollo nel dosare l’uso dei dispositivi elettronici e di rifiutare il linguaggio semplificatore e aggressivo degli hater, occorre alimentare, in famiglia e poi nei condomini, nei mondi vitali e in quelli pubblici, comportamenti che testimonino la possibilità di dialogare a tutto campo, senza eccedere nelle polemiche e nelle accuse, esplicite o implicite. Ne va del tessuto di una nazione, della democrazia e in fin dei conti della pace, la quale è solo una bandiera se non poggia su persone capaci di impostare confronti ragionati, formulare piste originali e alternative, favorire strumenti di inclusione e di partecipazione. 

Che siamo lontani da ciò lo attestano gli episodi di insofferenza e di fanatismo montante negli atenei, luoghi privilegiati per la protesta spesso priva di proposte e purtroppo anche antidemocratica se impedisce la libertà di espressione. Quali cittadini di domani quei giovani che hanno impedito di parlare al direttore di Repubblica Maurizio Molinari alla Federico II? E quelli che hanno bloccato l’intervento di Parenzo? D’altra parte non si possono rincorrere ipotesi di militarizzazione delle università per impedire manifestazioni e libertà di parola, soluzioni che rischierebbero di allargare l’area dell’estremismo. Che qualcosa si debba fare però è urgente, specie di fronte al montare dell’antisemitismo in seguito ai fatti di Gaza e del diffondersi del putinismo (perché così poche manifestazioni pro Ucraina ormai quasi distrutta?). 

Non si tratta solo di studenti, se anche il Senato accademico di Torino ha respinto il protocollo di cooperazione con gli atenei israeliani. Né si tratta di episodi limitabili agli atenei. Lo attesta il pessimo segnale antecedente: il 20.5.2023, all’Arena Piemonte del salone di Torino, si è verificato un caos che ha impedito la programmata presentazione del volume “Una famiglia radicale” della ministra per Pari opportunità, famiglia e natalità, Eugenia Roccella. Un gruppo di una trentina di manifestanti (Extinction Rebellion, Comitato Essenon, femministe di ‘Non una di meno’, Fridays For Future ed Ecologia), seduti per terra nella sala, ha alzato striscioni e urlato slogan rendendo impossibile il confronto sul testo. Eppure la Roccella ha un passato radicale e femminista, ma la sua scelta cattolica è considerata apriori conservatrice e inaccettabile. Nessuna possibilità di confronto pubblico sui motivi della protesta. Una delle attiviste si è sostituita all’autrice e ha letto un comunicato – evitando di fatto il dialogo – contro le posizioni cattoliche su temi come l’aborto e l’utero in affitto, aggiungendovi la presunta ‘indifferenza’ del governo alla crisi climatica. La Digos di Torino ha identificato e denunciato 29 attivisti, accusati di violenza privata. La Roccella, al contrario, ha chiesto di non allontanare nessuno: “Non potrei accettarlo perché io ho un passato in cui venivo portata via dai sit-in e non voglio che questo succeda”. Eppure ha dovuto lasciare il palco prendendo atto che la solidarietà tra donne è ormai uno slogan del passato, giacché le manifestanti non hanno voluto confrontarsi sull’utero in affitto, sulla mercificazione del corpo delle donne, sul relativo mercato razzista (i figli delle donne nere costano meno di quelle bianche). Significativa la reazione dell’editore Rubbettino: “Un’occasione di dibattito sprecata. Non è un bel segnale per la democrazia. Il libro di Eugenia Roccella è anche il racconto di una vita spesa per i diritti civili, delle donne e per la libertà. Le è stato impedito di parlare nonostante lei abbia dato una lezione di stile facendo parlare i contestatori”.

Quale pace reclamano questi giovani dalla postura illiberale? Essi confermano che:

  • la pace poggia su una attitudine democratica che va difesa e sempre ricostruita, evitando di darla per scontata.
  • I gesti di intolleranza non giovano alla causa. Rimbalzano su chi li compie e danneggiano le famiglie (quanto dolore dei genitori i cui figli vendono identificati dalla polizia!), i gruppi sociali, i partiti.
  • La diffusa posizione pregiudiziale nei confronti delle idee altrui poggia sull’alta considerazione, dogmatica e individualista, delle proprie convinzioni
  • Lo spazio dato a posizioni che direttamente o in modo latente incitano allo scontro avalla l’interesse di gruppi di potere economico e politico diretti a catturare il consenso dei meno attrezzati culturalmente e psicologicamente. 
  • La realtà dimostra che una certa ottusità nel confronto tra differenze sovrasta le categorie di appartenenza: non è il caso di illudersi sulla solidarietà spontanea tra donne, sulla superiorità etica di un gruppo sull’altro, che si tratti di donne e uomini, di destra e sinistra, di giovani e anziani, di religiosi e atei.

Ne va dello spessore civile ed etico della democrazia, così come auspicato dalla Costituzione italiana: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione’’ (Art. 21). Certamente la neutralità non è la soluzione, giacché spesso si rivela codarda e nociva. Non c’è democrazia senza «parti», portatrici di visioni opposte che si confrontano ragionevolmente su cosa sia il «bene della patria» (lo ha ben spiegato Cesare Balbo), ma neanche c’è democrazia se si lascia prevalere il rifiuto intollerante del dialogo aperto e rispettoso. Quando ci si concentra sull’obiettivo di zittire l’altro, di spegnerne la voce in modo che non venga neanche sentita e tanto meno possa essere contestata, si aprono le porte alle dittature e al dispotismo, seppure in vesti morbide.Cosa e fino a quando è opportuno tollerare? La tolleranza può essere assoluta, se pullulano idee razziste, machiste, propagatrici di violenza? Non ci sono soluzioni facili e veloci, che calano dall’alto. Meglio moltiplicare, per quel che si può, i laboratori educativi capaci di alimentare in ogni luogo della convivenza quel “minimo etico” da rispettare per evitare il caos, creando spazi alternativi, nei quali ci si educa ad accettare i tempi più lunghi della formazione, la pazienza del confronto, l’ascolto rispettoso e la discussione serena. Difficile aspettarsi che ci siano cittadini disposti a dare la vita per difendere il diritto alla libera espressione del pensiero, come auspica la inflazionata frase attribuita a Voltaire: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire» (in realtà di Evelyn Beatrice Hall in The Friends of Voltaire, 1906). Non si va avanti senza fissare un limite alla legittima contrapposizione, il che attiene al compito dei politici e dei giuristi, tuttavia alla base conta soprattutto che aumenti il numero di cittadini-eroi disposti ad impegnarsi nel favorire il dialogo franco e rispettoso, anche quando comporta una certa disponibilità a pagare di persona.

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