Comune ad ogni essere umano
Non è una parola rara o difficile, eppure si pronuncia raramente. Connotata da “calma e dolcezza”, è interpretata come sinonimo di debolezza, di arrendevolezza. La mitezza, una virtù delicata, è forse segno di fragilità? L’etimologia della parola proviene dal latino mitis: “tenero, maturo, dolce” ma, a differenza di quanto si potrebbe pensare, il termine indica l’equilibrio, esattamente come quello climatico, che bilancia alluvioni e serate profumate. La persona mite è dunque capace di bontà temperate e pazienti, di un comportamento ispirato ad un senso di benevola umanità. Potrebbe essere questo il nucleo centrale del Saggio: “La forza della mitezza”, il quale raccoglie alcuni interventi di studiosi ed operatori sociali all’insegna del pensiero di Giorgio La Pira, il Sindaco di Firenze che con la mitezza ha contraddistinto le relazioni e l’azione politica. Il testo è per chi ama pensare e riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni ed è capace di andare controcorrente ma mai contro cuore, non si adegua alle mode dilaganti e vuole liberare il proprio pensiero dalle catene che spesso lo comprimono. L’esperienza editoriale del testo è originale in quanto la teoria presentata è in seguito approfondita mediante la narrazione di testimonianze; il senso del Saggio è richiamare ciascuno ad un esercizio consapevole della mitezza ma non fornendone una sua definizione bensì indicando un percorso che continuamente muta in relazione ai contesti, allo spazio, al tempo. Il libro, scritto a più voci, dà vari spunti di dialogo poiché analizza la mitezza quale pacificazione interna, atteggiamento interiore, scelta storica, reazione benevola, in base ad una società violenta che, per tale motivo, dovrebbe far attuare percorsi di partecipazione democratica, di educazione alla cittadinanza attiva. A tal proposito, asserisce la docente Rosa Loredana Cardullo: “Soltanto formando i giovani alle virtù, orientandoli al bene, essi saranno in grado di porsi in ascolto dell’altro e realizzeranno un mondo più giusto. Le virtù devono essere introiettate, acquisite con l’esercizio, affinché il giovane viva e faccia vivere agli altri una vita buona degna di un essere razionale, rispettosa dei diritti e dei doveri di ogni uomo, una vita che rifiuti la violenza e l’arroganza”.
Mitezza e parole
Mitezza e mansuetudine non hanno lo stesso significato: la prima è una virtù sociale, la seconda individuale; è questa una differenza che, approfondita nel Saggio, ricorre ad autori autorevoli. Il mite non è insensibile al male, lo accetta ma non si rassegna ad esso, cerca di opporre all’offesa la gentilezza, all’aggressività la pacatezza, “attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità”, scrive il filosofo Norberto Bobbio. È una sorta di antieroe, in quanto non incarna gli stereotipi proposti come vincenti: narcisismo, antagonismo, competitività; è attento alle parole perché non mortifichino. Afferma lo psichiatra Eugenio Borgna: “La mitezza è ferita dalle parole aride e fredde, scostanti e aggressive, che non di rado si accompagnano alle nostre giornate”, ma ha anche l’esigenza di tacere, come testimonia nel suo diario la scrittrice Etty Hillesum: “… in me c’è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono tante parole che stancano perché non riescono a dire nulla. Bisogna sempre più risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche parole che ci sono necessarie”, per lasciare spazio all’espressione dell’essenziale. Scrive ancora Borgna: “La mitezza, nei suoi camaleontici orizzonti, è fragile come una farfalla ma ha la forza di uscire dall’egoismo e dall’individualismo spalancando le porte alla saggezza. Beati i miti perché la mitezza è una stella del mattino”. Il testo indica Gesù come l’uomo giusto e mite per antonomasia, Colui che ha testimoniato una consapevole non violenza ma mai un carattere debole né un comportamento remissivo, pur pronunciando sempre misericordiose parole di amore.